Quirinale – Demansionata dall’arrivo del Drago a Palazzo Chigi, la politica si sta concentrando sulla sottopolitica dove può recuperare uno straccio di sovranità e un pizzico di strategia. E al primo punto c’è la Questione Quirinale. Mattarella dice: “non contate su di me per il bis” e non si sa se lo dice per davvero oppure no, non vuole brevi proroghe o vuol richiamare i partiti ad assumersi la decisione. La soluzione Mattarella-bis è caldeggiata come schermo per altre manovre, per non andare al voto e per tenere Draghi a Palazzo Chigi senza traslocarlo al Quirinale, evitando così di trovarci senza governo, costretti a votare il prossimo anno. Al voto vogliono andarci solo Meloni e Salvini, perciò la partita del Quirinale prenderà con ogni probabilità un’altra piega.
Lasciamo la sottopolitica e torniamo all’aperto. Partiamo da un sondaggio Demos, tanto per dare una vaga parvenza di riscontro reale e democratico. Interrogato in merito, il campioncino del popolo sovrano così rispose: piccola preferenza per Draghi, segue la conferma di Mattarella; altre ipotesi scarse o non pervenute. Nessun leader politico è preso in considerazione per il Quirinale, ma Salvini e Meloni hanno un alibi di ferro: non hanno l’età per il Quirinale, sono under 50. Letta è sopra i 50 ma è sotto l’indice di popolarità e un altro candidato di sinistra non affiora nei sondaggi.
Eppure da quasi mezzo secolo è lì che si decide chi sarà il presidente; sempre nell’arco del centro-sinistra, in passato alternando un laico e un democristiano, un espansivo e un introverso, un figurante e un intrigante, un manovratore e un manovrabile (ma poi le due cose coincidevano). Nel vuoto della sinistra, della destra e del centro un piccolo consenso resta a Giuseppe Conte ma è un residuo di popolarità istituzionale unito a un residuo di militanza grillina. Più che un voto è un ex-voto.
L’ultimo eletto al Colle che fu espressione allargata alla destra risale a 50 anni fa: Giovanni Leone nel ’71, e fu martoriato. Idem prima di lui per Antonio Segni e dopo di lui per Francesco Cossiga; guarda caso, tutti sgraditi o diventati sgraditi alla sinistra. Al tempo della seconda repubblica accadde talvolta che il centro-destra si accodò, come fu per l’elezione di Ciampi; ma si trattava pur sempre di candidati nati con l’imprimatur della sinistra. La sinistra ha il banco, è la voce del potere, almeno da quando scomparve la Dc; è lei a dare le carte.
Il popolo sovrano non sceglie ma alla fine accetta quel che passa il convento: infatti chi c’è già al Quirinale o a Palazzo Chigi (o al più chi ci è appena stato) mantiene nei sondaggi un piccolo vantaggio rispetto agli altri, e capeggia la scarsa classifica dei candidati. Ma nessuno arriva nemmeno al 15% dei consensi; viviamo una repubblica acefala, lo Stato non ha Capo, o non è riconosciuto.
Ciò accade anche per una peculiarità del sistema italiano: da noi funziona più l’interdizione che la convergenza, ovvero ci si accorda più facilmente su chi impallinare. Conventio ad excludendum, veti incrociati, tiro al bersaglio. Il leader ha sempre tutti contro, soprattutto se ha una personalità forte. La congiura dei mediocri; o forse siamo un paese consociativo-ostativo che si accorda sul non fare piuttosto che sul fare.
Si conferma il paradosso del Quirinale. Mai nessun presidente della repubblica eletto in Italia godeva prima di salire al Quirinale del consenso popolare. Quasi tutti non erano stati presi nemmeno in considerazione come candidati, incluso il regnante Mattarella su cui non avrebbero scommesso nemmeno i più creativi dietrologi e veggenti; chi avrebbe mai solo pronunciato nel toto-Quirinale di sei anni fa, il nome di Mattarella, che pareva un polveroso reperto nelle retrovie della prima repubblica? Nessuno, fu una trovata di Othelma Renzi. Ma anche gli altri suoi predecessori non erano quasi mai nella lista dei papabili. Poi, si sa, la funzione sviluppa l’organo, la reiterazione quotidiana della sua immagine e dei suoi messaggi fa crescere consensi; e l’ossequio permanente, alla fine, produce adattamento e assuefazione.
Pertini fu popolare, seppur divisivo, ma solo dopo che fu presidente, inaugurando il populismo presidenziale. Anche coloro che studiarono per una vita per diventare PdR – il caso più vistoso fu Spadolini, più uno sciame di notabili soprattutto democristiani – non coronarono il loro sogno. L’eletto è di solito una seconda fila, un gregario. Mai un leader politico è diventato Capo dello Stato. Pensate ai leader più rappresentativi della repubblica: De Gasperi, Fanfani, Moro, Andreotti, Nenni, Craxi, Togliatti, Berlinguer, Almirante, La Malfa, Malagodi, Pannella.
Nessuno di loro diventò Capo dello Stato. Ma se è per questo, non fu mai eletto nemmeno un Padre della patria o una Grande Personalità, un’Eccellenza in altri campi. Nessun Presidente in pectore, voluto dalla storia, dalla logica o dai cittadini, fu eletto al Colle. Se avessero votato gli italiani, negli ultimi decenni avremmo avuto al Quirinale Tonino Di Pietro, al tempo di Mani pulite, Silvio Berlusconi al tempo del suo reame, forse Beppe Grillo nell’epoca dell’antipolitica; nel ’15 avremmo schivato Matteo Renzi solo per l’età.
Torniamo all’oggi. Se tanto ci dà tanto, è difficile che Draghi possa essere eletto, salvo direttive Ue, soprattutto se si vota alla scadenza naturale, tra 8 mesi. Perché se viene eletto occorrerà un nuovo premier, e se non si ripiega su un luogotenente tecno-draghiano, la soluzione più naturale sarebbero le urne la prossima primavera. Ma per gran parte del Parlamento va bene tutto, meno che il voto. Gran parte della Cupola di regime teme il voto come i telefonini temono l’acqua. Da qui prende le mosse il Quirinal tango con figure.
MV, La Verità
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