Il partito che non c’è

de gasperi

Il partito che non c’è

Per non mettere vino nuovo in otri vecchi

Più i partiti italiani sono assenti e non rispondenti ai canoni della democrazia diretta partecipativa, vivendo di leaderismo ed immagine mediatica, più si moltiplica, spesso velleitariamente, la spinta a fondarne di nuovi. Ma la soluzione non sembra semplicemente questa. Il problema dei problemi è invece un altro: come fare evangelicamente in modo di “non mettere il vino nuovo in otri vecchi.”

In altre parole, fondare un partito è cosa serissima e bisogna avere idee chiare, evitando fondamenta effimere ed ingenerando ennesime illusioni. Altrimenti la diserzione del voto si dilaterà ancora.

Parola di “demofilo”, amico della democrazia

Per questo intendiamo avventurarci in queste acque agitate e pericolose per disegnare un percorso che cerchi di “materializzare” le premesse, l’organizzazione e le finalità di un partito degno di questo nome.

E, come sempre, saliamo volentieri sulle spalle dei giganti del passato per intravedere meglio questa prospettiva. E ci preme prendere avvio dalle riflessioni di un grande “costruttore” di democrazia, Alcide De Gasperi, che, non a caso, negli anni della clandestinità, si firmava con lo pseudonimo “Demofilo” (amico della democrazia).

In un vigoroso e lungimirante discorso tenuto al Congresso della DC romana, in piena epoca di ricostruzione civile e politica (siamo nel 1945), affrontava così il problema della partecipazione politica: “Per operare nel campo sociale e politico – diceva – non basta né fede né virtù, conviene creare ed alimentare uno strumento adatto ai tempi, il partito, cioè un’organizzazione politica.”

Nel proseguire, lo statista declinerà in modo concreto ed incisivo attraverso tre punti cosa intendere per “organizzazione”: programma; metodo proprio e responsabilità autonoma; fattura e gestione democratica.

Un programma tra il “poco” ed il “troppo”

De Gasperi era conscio che si correva il rischio di un fraintendimento preliminare tra “il poco” ed “il troppo” da attribuire alla parola programma.

Il rischio del “poco” consisteva nel mero elenco di cose da mettere in agenda. Quello del “troppo” si basava invece sul dare credito ad un decalogo vincolante, quasi “giurato”, che valesse più della politica.

Sua convinzione che in nessun caso la politica può esaurirsi nell’alibi del programma.

Oggi potremmo dire con De Gasperi che il programma è uno strumento, anche se importante, connotato da agilità, duttilità, anche se non ondivago, per condurre ad un obiettivo definito sempre guidato dalla politica. Un partito correttamente interpretato non può essere né solo programmatico né ideologico, altrimenti sarebbe altra cosa da un partito autentico.

Metodo proprio e responsabilità autonoma

La forza di un partito è l’autonomia. È infatti un’organizzazione democratica che si basa su un metodo proprio e non eterodiretto da ingombranti condizionamenti esterni, potentati economici, lobby.

Ciò non vuol dire che viva nell’impermeabilità. Il partito, forte della sua identità ed organizzazione, non può essere arroccato ed auto-referenziale.

Il metodo virtuoso è quello che porta all’operosa e mai compiuta fatica della sintesi tra politica, società ed economia. Come dire: le richieste, i bisogni, gli interessi, le dialettiche, anche le tensioni all’interno della società vanno ad incrociarsi fisiologicamente con la responsabilità ultima di scelta della politica.

Fattura e gestione democratica: molto più di un posizionamento personalistico

Sempre De Gasperi ci viene in aiuto con un discorso, ancora più esplicito, tenuto nel 1954 ai dirigenti DC dell’Italia centrale dedicato all’alto compito della politica:

“Non si tratta – diceva il Presidente del Consiglio – di esistenze personali, ma, come allora (con riferimento ai momenti più critici del secondo dopo-guerra) di spirito, dell’avvenire, della vita del nostro Paese”.

E proseguiva: “Occorre capire che il partito è molto più di un posizionamento personalistico.”

Per poi concludere: “È vero che il partito è “parte”, ma che non vuole essere relegato nella pregiudiziale parzialità. Dunque né individualista, né partigiano per un gruppo.”

Il partito si configura quindi come casa della democrazia in cui nessun aderente è ospite, ma proprietario alla pari delle chiavi di casa; cantiere di elaborazione di idee (non umori); protagonista a tutti i livelli (pur con diverse responsabilità) di una perenne ri – tessitura tra persona e comunità; un’operosa sintesi propria di un partito che è sì “parte”, ma la cui generosa missione è il bene comune.

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