Il voto di domenica, che fino a sabato non doveva avere valore nazionale, assume oggi una connotazione più generale. Il PD di Zingaretti, o di Renzi, detta le regole e si trova l’avversario, per un nuovo bipolarismo. Il distacco tra le Forze in Parlamento ed i nuovi equilibri elettorali nel paese è sempre più marcato.
Nonostante abbia perso in Calabria ed in Emilia Romagna manchino all’appello 10 punti percentuali e quello che era un feudo ora appaia praticamente diviso tra centrosinistra e centro destra, il PD di Zingaretti tira le somme dopo la gran paura di poter perdere in casa. E lo fa con spregiudicata fierezza, soprattutto nei confronti degli alleati di governo pentastellati che hanno raccolto un’ennesima debacle elettorale.
Il bipolarismo di ritorno
Diciamolo francamente: se si fosse votato per le politiche anziché che per le regionali, il parlamento di oggi sarebbe ben diverso da quello che invece continua ad occupare gli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama.
Sarebbe un parlamento spaccato in due, a maggioranza probabilmente di centro destra e con una componente solo residuale di partiti non ben inquadrati in uno schieramento di destra o sinistra.
Il superamento del ruolo qualunquista ed il ritorno al bipolarismo è evidente, con l’annessa “chiamata alle armi” delle due parti.
Eppure la riforma della legge elettorale dovrebbe essere, almeno era fino a pochi giorni fa, in senso proporzionale e non maggioritario, come imporrebbe invece l’attuale scenario.
“Torna il bipolarismo, quindi, i cittadini, aiutati da una legge elettorale limpida che le oligarchie non vogliono applicare alle politiche nazionali, chiedono a centrodestra e centrosinistra di stare insieme, semplificare il quadro mantenendo le identità e bocciando la dispersione figlia del proporzionalismo”. È questa la lettura del voto del capogruppo di Fratelli d’Italia a Montecitorio, Fabio Rampelli, soddisfatto dei risultati del centrodestra e della semplificazione del quadro con il fallimento del terzo polo grillino.
Il PD vince se non fa campagna elettorale
Una cosa è certa: il PD meno si mostra o fa parlare il segretario, meglio è, e più consensi raccoglie.
La campagna elettorale di Bonaccini, infatti, è stata gestita dalle Sardine e da movimenti sedicenti “spontanei”, piuttosto che dal partito di riferimento, sui manifesti del governatore riconfermato il simbolo del PD nemmeno c’era.
È un segnale di bisogno di coalizione, il PD da solo non raccoglie, ma ha bisogno di catalizzare intorno a sé istanze di sinistra diverse e dalle anime differenti.
Differenti come la contrapposizione “interna” Zingaretti-Renzi, che con il suo pseudo partito “Italia Viva” rappresenta di fatto una corrente esterna, ma in sostanza non troppo, al Partito Democratico e costituisce la gran parte della maggioranza del governo Conte bis. Ma nel paese rappresenta un 3% scarso.
La distanza tra voti reali e numero di parlamentari è, di fatto, il punto della questione, in un braccio di ferro tra i due aspiranti segretari futuri che è pronto per il secondo round.
L’abbraccio mortale al Movimento 5 Stelle
Diciamolo onestamente, il grande sconfitto di questa tornata elettorale è il Movimento 5 Stelle, ormai in caduta libera.
Il PD, lo ha blandito, corteggiato dapprima e stretto poi in un abbraccio nelle cui spire ha fagocitato i suoi elettori e non fa nulla per nascondere la sua intenzione di relegarlo in un angolo, minacciandolo in maniera nemmeno molto nascosta, di un avviso di sfratto qualora non si allineasse alle istanze Dem.
Nicola Zingaretti si affaccia all’ingresso del Nazareno e lancia un messaggio inequivocabile agli alleati del M5s: “Si sta tornando a un sistema bipolare su due grandi campi che si contendono la leadership” quello del centrosinistra e quello del centrodestra. Ricordiamo he pochi giorni or sono aveva dichiarato di voler fondare un nuovo partito al posto del PD, pardon un partito nuovo.
Chissà se ha cambiato idea. Sicuramente ha cambiato strategia ed atteggiamento verso gli alleati di governo, che vorrebbe una alleanza per i prossimi appuntamenti elettorali, con l’intento, neppure troppo nascosto, di prosciugarne una già debole identità politica e bacino di elettori.
“Il M5s sta avendo una discussione e io mi auguro che si prenda atto di questo nuovo schema Il Pd è il pilastro fondamentale, di un campo di forze che vede nella Lega una forza estremista“.
Il leader del Pd non fa mistero delle sue intenzioni: “Spero che tutti siano disponibili a questa fase, perché conviene a tutti. Si governa da alleati, non da avversari”. Zingaretti sa che nuove vittorie alle Regionali consoliderebbero non solo la sua posizione nel partito, e il Pd stesso, ma affonderebbero del tutto il già precario partito di Grillo, ormai di fatto senza una guida politica.
Una maniera soft, ma nemmeno tanto, di avvertire l’alleato che non alzi troppo la testa, perché in una ipotetica elezione politica sarebbe destinato a scomparire. Apprezzi quindi che ancora ha numeri importanti in parlamento, ma la barra del timone adesso passa al Pd.
Fase due, no elezioni anticipate
Non si tratta di un rimpasto o revisione delle forze, si tratta soprattutto di mettere in campo una agenda “coerente” per avviare la Fase 2 del governo.
Una Fase 2 in cui il Pd continuerà ad essere responsabile ma – avverte Zingaretti – “responsabile non vuol dire subalterno“.
L’attuazione del programma di governo va avanti, certo, ma il Pd ha messo sul tavolo anche il Piano per l’Italia, che prevede passaggi sugli investimenti green, la riforma fiscale a cui sta già lavorando il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, la riforma per estendere l’obbligo scolastico, asili nido obbligatori, e più o meno velato, lo Ius Soli.
La ulteriore conseguenza è che, la prospettiva del voto anticipato si allontana, almeno fino alle regionali di maggio.
Si dovrà votare per il referendum costituzionale (tra fine marzo e aprile), di certo non ci saranno elezioni anticipate prima che gli italiani decidano per quanti parlamentari vogliono votare, se 945, come in passato, o 600, come sarà in futuro.
Con 60 giorni per definire i collegi elettorali, dopo il referendum, e 55-70 giorni per indire i comizi elettorali, si arriverebbe, se di nuovo si precipitasse in una crisi di governo, agli inizi dell’estate, dopo la quale lo spauracchio di una nuova manovra economica, renderebbe difficile una vacatio di un governo stabilmente in carica.
Un Conte Ter?
Un’altra ipotesi sul tappeto è quella di un Conte Ter, che tenga conto dell’inevitabile diaspora che avverrà nei prossimi mesi di parlamentari pentastellati, con una maggioranza a guida Pd sostenuta da una pletora di “responsabili”.
O anche un profondo rimpasto che tenga conto dei nuovi equilibri all’interno della maggioranza.
Equilibri che vedono i 5 stelle sempre più puniti dal proprio elettorato, realizzando finalmente il disegno del Presidente Mattarella di depurare l’esecutivo dalla componente grillina, che è sempre stata vista come un corpo estraneo. E di arrivare indenni alla elezione del nuovo Capo dello Stato, senza lo spauracchio che possa non essere un esponente di centrosinistra.
Renzi e Zingaretti
Zingaretti si trova ora a gestire i gruppi parlamentari infarciti di renziani, e pochi a lui fedelissimi.
Scommettiamo sul fatto che il Matteo di Rignano sull’Arno, tornerà all’attacco della segreteria Pd molto presto, per sfruttare il potere numerico che ancora ha in Parlamento, e non essere destinato all’oblio al quale invece i risultati del suo partitino lo destinano.
La lezione per Salvini
Ed infine le lezioni da imparare per l’altro Matteo, quello lumbard, che esce, malgrado l’avanzata numerica della Lega, da sconfitto dalla consultazione Emiliana.
L’aver trasformato quelle elezioni in un referendum sulla sua persona, è stato indubbiamente un errore.
Da macchina propagandistica quale è, nella trance agonistica di tre comizi al giorno, conditi da selfie ed onnipresenze, si è fatto gestire troppo dall’istinto e poco dalla riflessione.
“Da soli non si va da nessun parte”, è stato costretto ad ammettere, annunciando di essere pronto a lavorare alla costruzione di una squadra del centrodestra a livello nazionale.
Nella coalizione possibile del centrodestra, la sola Meloni professa incondizionata lealtà, ma avanza comunque una critica alla Borgonzoni, chiedendo un cambio di metodo e maggiore condivisione nella scelta dei candidati.
“Per lealtà abbiamo taciuto, ora possiamo dirlo: quella messa in scena in Emilia-Romagna è stata una campagna elettorale brutta, indicativa di uno squilibrio da correggere”, accusa apertamente, Andrea Cangini, senatore di FI e portavoce di Voce Libera. “Salvini ha imposto alla coalizione un candidato volenteroso ma debole, si è posto come capo di un partito più che come leader di un’alleanza, ha infiammato una campagna elettorale autocentrata rivolta non ai cittadini emiliano-romagnoli ma al Palazzo trasformando le elezioni regionali in un referendum su se stesso. E, come capitò ad un altro Matteo, ha perso”.
“Il centrodestra unito può vincere ovunque, perfino a Genova dove è in testa. Sempre che non rimetta in onda le stucchevoli prove muscolari su chi debba condurre la coalizione, con scenografiche quanto intempestive dichiarazioni alla stampa”, afferma il capogruppo di Fratelli d’Italia a Montecitorio, Fabio Rampelli “Ora – aggiunge – dobbiamo vincere i ballottaggi, litigare significa non rispettare i cittadini e sottometterli alle tifoserie. Il forte ridimensionamento del M5S non è casuale. Il fallimento della Raggi a Roma, la goffa approssimazione con la quale si muove nelle istituzioni, l’assenza di cultura politica che impedisce decisioni necessarie sui temi più scottanti (per non perdere il pezzo di elettorato di sinistra o quello di destra di cui si compone), la cantilena menagrama contro lo Stato che rischia di distruggere anche quel poco che funziona sono stati esiziali”.
Esiziale come potrebbe essere il risultato di chi si continuerà a muovere nella erronea convinzione di avere ragione, e dimostrerà di non aver colto le lezioni che il voto di domenica ha inequivocabilmente impartito.