Fa bene Alexandre Del Valle a smontare con argomenti convincenti, quel diffuso, pervasivo senso di colpa dell’Occidente nei confronti del resto del mondo, in particolare dell’Islam, del sud del pianeta e di quelle terre che furono un tempo colonizzate. È un complesso indecente quanto ingiustificato, la vergogna di essere quel che noi siamo e figli di quella storia, di quella civiltà, di quel modo di essere. Una forma di auto-colpevolizzazione, a volte grottesca, che poi coincide con il canone occidentale presente, quello che viene definito politically correct e con il dogma umanitario dell’accoglienza, dell’apertura senza limiti ai migranti.
Sulla sua linea critica, decisamente minoritaria in campo intellettuale, Del Valle trova compagni di strada di qualche peso, da Alain Fienkelkraut a Pascal Bruckner, e in casa nostra da Oriana Fallaci a Marcello Pera e Magdi C. Allam fino a Giovanni Sartori, almeno in tema di multiculturalismo.
La colonizzazione non fu solo una pagina nera e infame, produsse anche sviluppo e benessere in popolazioni affamate e arretrate, mise in moto processi storici importanti; a volte accadde l’opposto, affamò e ridusse alla servitù popoli che avevano una loro economia di sussistenza e una certa dignità di vita, con altri canoni e paradigmi. Le scoperte scientifiche, il progresso tecnologico, il benessere diffuso, la diffusione della democrazia e della libertà, la laicità e la distinzione tra il piano religioso e politico, sono tracce importanti dell’Occidente e sue peculiari conquiste che non possono essere cancellate dai massacri o dallo schiavismo. Rispetto al mondo, l’Occidente non ha dunque da fare solo mea culpa e sentirsi sempre in difetto e in colpa. L’Occidente è stato il mondo storico, il mondo dell’espansione, ha prodotto più di tutti.
Il discorso invece cambia se l’Occidente ripensa il suo presente in relazione a se stesso, alla sua storia e non nel paragone con gli altri mondi. Qui si dovrà distinguere tra le radici cristiane, greche e romane dell’Europa e dell’Occidente e i suoi frutti presenti, all’insegna del dominio assoluto della tecnica e dell’economia; tra la civiltà europea e l’americanizzazione del mondo, tra l’egemonia statunitense e la storia d’Europa. Ma si dovrà soprattutto considerare che l’Occidente ha finito col coincidere con la globalizzazione, e dunque finisce sconfinando. La perdita del confine è anche la perdita della civiltà e l’avvento – per usare le parole di Spengler – della civilizzazione. L’Europa, in particolare, soffre di denatalità, perdita del passato, del futuro e del trascendente, è in preda al nichilismo, è ormai dispersa in una cultura individualistica e globale. Trent’anni fa dedicai a questo tema un saggio, Processo all’Occidente e ci sono di recente tornato in Tramonti.
Per questo sarà il caso di scomporre l’Occidente distinguendo al suo interno tra il sub-continente latino-americano, il più popoloso, e gli Stati Uniti, tra Europa ed Usa, tra Europa del nord ed Europa mediterranea. E si dovrà ripensare in termini di civiltà ma anche di nazioni, di stati sovrani e di patrie.
Insomma, per così dire, bisogna distinguere tra l’assalto esterno all’Occidente di popoli in crescita demografica e ancora giovani e l’emorragia interna allo stesso Occidente che non lascia grandi speranze se non interviene qualche fattore finora trascurato e se non cambia il modo di vedere ad Occidente. Ma il dio che potrà salvarci non verrà certo dall’Islam.
MV, prefazione a Il Complesso occidentale di Alexandre Del Valle, in uscita da Paesi Edizioni