Le elezioni di metà mandato consegnano un risultato amorfo ai politologi e agli esperti di cose made in USA. Nessun osso da addentare con entusiasmo da parte dei molossi del giornalismo d’opinione. Nessun titolo da brandire alla stregua di scimitarre revanchiste contro sovranismi e nazionalismi di ritorno. Niente di niente. Solo la banale e trita cronaca di un déja vu.
L’uomo dal capello cotonato e dalla bocca a culo di gallina (nella splendida imitazione di Alec Baldwin) è uscito grosso modo indenne dalla tornata elettorale appena trascorsa. Ha perso il controllo del Congresso; ha rafforzato la presa sul Senato; ha vinto nei soliti Stati, nonostante l’appeal indiscutibile di Beto O’Rourke; ha perso in Stati altrettanto soliti, gli Stati del mare, gli Stati delle coste, luoghi nei quali qualcuno ha detto che il viaggiatore approda con un senso di sollievo, un sollievo che ha a che fare con il fatto di uscire dagli Stati Uniti, di sfuggire alla Deep America. Che però resta l’anima e il cuore del Nuovo Mondo. Nuovo davvero, e profondamente diverso rispetto alla piccola e complessa Europa. Nuovo e primigenio, forse rozzo, ma indiscutibilmente genuino e affascinante.
Ora, il fatto che un leader politico al governo patisca un calo nei gradimenti elettorali non stupisce affatto. È un esito comune e quasi inevitabile: le lune di miele, posticce ab origine, non sono destinate a durare. I rapporti d’amore si fondano assai meno sull’attrazione sessuale e sull’I’m on fire di Springsteen che sulla comunione di vita, sul rispetto, e sulla condivisione di ideali comuni e di un progetto da realizzare. Lo scenario che si è prodotto consente a entrambe le parti in causa di tirare acqua al proprio mulino, tic tipico dei politici, che per un politico è forse un dovere d’ufficio, ma che agli occhi di un osservatore esterno appare una manifestazione inequivocabile di una patologia di carattere nevrotico-compulsivo. Trump resta in piedi e può camminare con le spalle dritte. I Democratici hanno vinto, almeno in parte, e possono sperare che Trump cammini più ingobbito del solito.
Una cosa resta incomprensibile agli occhi di un osservatore europeo non troppo addentro alle cose d’oltre oceano. Ovvero, per quale motivo un Presidente discusso, detestato, temuto, ma anche amato e portato sugli scudi come un feticcio con il quale identificarsi, non abbia giocato la propria campagna elettorale sui successi dell’economia, un’economia che è ai massimi da dieci anni, in barba alla crisi di Lehman Brothers, e abbia invece deciso di appiattirsi, di “svendersi” facendo leva sulle paure intestine che la Deep America pare nutire nei confronti dell’immigrazione. Chi vive in Europa, che è circondata dappertutto dal mare (che non sempre è un oceano), e chi, tra gli Europei, vive in Italia, fatica a comprendere una simile scelta strategica. L’immigrazione, per quanto intensa, è perfettamente gestibile se gli immigrati giungono via terra: Macron, a dispetto dei suoi pruriti umanitari, insegna. Cosa ben diversa se gli immigrati giungono via mare, giacché il mare, in quanto spazio alieno e intrinsecamente pericoloso, segue regole tutte sue, anche giuridicamente parlando.
Ma tant’è: Trump ha scelto di puntare sull’immigrazione e il risultato è che non ha vinto e non ha perso. Quali sono invece, alla luce del risultato elettorale, le aspettative dei Democratici? Niente da fare con l’impeachement, con grande scorno delle star di Hollywood e dei media main stream. Per spedire a casa il Presidente occorre infatti controllare anche il Senato, controllo che gli elettori non hanno consegnato ai liberal e che non pare nemmeno alle viste. Ergo, ciò che appare più verosimile è un approccio pragmatico al “demonio-Trump”, secondo un’agenda che la Pelosi pare aver già delineato. Tra i punti all’ordine del giorno figurano, alla grossa, i seguenti cavalli di battaglia: la riforma del sistema di finanziamento delle campagne elettorali; la riforma della legislazione sanitaria, a partire dalla riduzione del costo dei farmaci; la tutela dei cosiddetti “dreamers”, ovvero degli immigrati irregolari che approdano negli Stati Uniti in tenera età; l’introduzione di qualche forma di controllo preventivo volto a impedire a n’importe qui di acquistare un fucile a pompa o un mitra d’assalto; l’implementazione dell’Equity Act, allo scopo scopo di introdurre nel Civil Rights Act i diritti delle donne e delle solite comunità LGBT.
Come si vede, gocce di sinistra, di una sinistra esanime, alla valeriana, versate con cautela nella speranza di rallentare il fenomenale swing del più controverso Tycoon della storia. In tutto questo, non una parola sui temi più gravi e urgenti, sui temi di politica estera, sulla posizione e il ruolo che gli States intendono assumere nel mondo, a cominciare dai rapporti con la Russia. Com’è stato scritto, Trump ha sepolto definitivamente l’epoca del multilateralismo, l’epoca inaugurata dopo il secondo conflitto mondiale con la creazione dell’ONU. L’”America great again” è un’America forse ancora grande, ma sempre meno padrona del mondo. Un mondo che, dopo il crollo dell’egemonia europea, assiste adesso alla lenta eclissi del gigante d’oltre oceano, sempre meno poliziotto globale, a dispetto della finanza e della moneta, che ancora resistono, non senza fatica. Il tutto, in un contesto nel quale le Nazioni Unite appaiono ormai un simulacro, e gli accordi (e forse un giorno persino le guerre) si fanno via Twitter o a colpi di pacche, o di mancate pacche sulle spalle. Di questo piccolo tema e insignificante, ovvero del mondo, e del ruolo degli USA nel mondo, ci sarebbe piaciuto intendere qualcosa durante la campagna elettorale appena trascorsa. Nulla di tutto ciò.