IN ATTESA DELLA CORTE EUROPEA DI GIUSTIZIA, PASSANDO PER MONFALCONE

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IN ATTESA DELLA CORTE EUROPEA DI GIUSTIZIA, PASSANDO PER MONFALCONE

Come sempre, il tema delle migrazioni è tema caldo, mediante il quale si scontrano visioni non solo giuridiche, ma anche politiche.

Un tema sovente trattato con una certa dose di superficialità in un senso o in un altro, e che invece meriterebbe una trattazione approfondita perché è serio e persino strategico per capire quale comunità andremo ad essere nel giro di pochi anni

Non v’è dubbio che la piaga del traffico di esseri umani e l’afflusso di sempre più migranti in Italia, quale porta per l’Europa, comporti notevoli problemi. La cronaca quotidiana ci restituisce un quadro sconfortante di bivacchi di immigrati inoccupati strascicati sulle scale delle stazioni o sempre più spesso – come testimoniano le statistiche – direttamente coinvolti in episodi criminosi anche assai gravi.

Naturalmente, un tema non solo “giudiziario” ma anche politico e culturale che chiama in causa rischi, prospettive e visioni del mondo, appunto molto diverse fra loro

Il Governo italiano dopo decenni di “mala gestio” del fenomeno, informata ai principi del più ingenuo e persino patetico buonisimo della sinistra, ha obiettivamente messo mano a delle strategie di contrasto al traffico di migranti irregolari che pareva non dovesse aver fine.

Assieme alla implementazione di accordi bilaterali che dovrebbero limitare le c.d. partenze dalle coste nordafricane, il Governo, come noto, ha deciso di avviare una collaborazione con l’Albania per la realizzazione – effettutata – di un centro per i migranti. Il protocollo Roma-Tirana è da subito divenuto oggetto di un’attenzione smodata della magistratura italiana, investita di ciò da ricorsi sempre più copiosi avverso la normativa, che violerebbe, secondo l’impianto generale dei ricorsi, la normativa europea sull’accoglienza

Dal punto di vista politico, invece, l’accordo è stato bersagliato al pari del Molotov-Von Rippentropp, come se si volesse costruire lager e rinchiuderci dentro i richiedenti protezione internazionale.

Un fuoco di fila per lo più ideologicamente orientato, che tuttavia sta sopravvivendo e, contrariamente alle aspettative degli oppositori sta trovando sempre più apprezzamento anche nelle rigide cancellerie di Bruxelles, o in altri paesi extra UE (la Gran Bretagna non il Burundi, tanto per intenderci).

Che forse l’Italia possa aspirare a porsi come capofila di soluzioni realmente efficaci per combattere il traffico dei persone umane? Lo speriamo di cuore.

Ma dal punto di vista tecnico, la partita è assai complicata e districare la matassa non è affatto semplice. Il tema dirimente è proprio la qualificazione di “Paese Sicuro” che determina la possibilità di rimpatrio. In caso contrario, il migrante rimane in una sistuazione di sostanziale limbo, nel quale non è regolare, ma non è nemmeno – a stretto diritto – irregolare. Diventa quindi una sorta di fantasma incontrollabile che probabilmente è la natura che gli consente di aver maggior campo di azione allorchè decidesse o fosse indotto a delinquere

Risolvere la questione – una volta per tutte – sulla qualificazione di Paese sicuro sarebbe sicuramente un contributo alla gestione del fenomeno e su questo, occorre segnalare alcuni punti.

Il primo. L’italia rispetto all’UE ha una propria lista di paesi sicuri, seppur rimodellata nel tempo per effetto di interventi della CEDU e della CGUE.
Il principio fondamentale è dunque quello per cui non si può rimpatriare un soggetto in un paese che non assicura il minimo dei diritti fondamentali che invece vengono assicurati in Italia e in Europa.

La designazione di “Paese di origine sicuro” secondo la modalità sopra indicata consente di applicare procedure accelerate per l’esame delle domande di asilo e può facilitare i rimpatri in caso di rigetto della richiesta. Tuttavia, il richiedente può contestare questa presunzione dimostrando che, nel suo caso specifico, il Paese non è sicuro. Ed è questo che ha dato origine al fenomeno dei ricorsi all’Autorità Giudiziaria per ogni singolo trasferimento

Se questo è, a spanne, lo stato delle regole, assume rilievo la recentissima posizione di De la Tour, in quanto aggiunge un tassello che aiuta a districare la matassa ingarbugliata.
Secondo de la Tour, uno Stato membro può designare un Paese terzo come “Paese di origine sicuro” attraverso un atto legislativo, a condizione che la designazione si basi su una valutazione fondata su fonti d’informazione affidabili e accessibili, come quelle fornite da organizzazioni internazionali.

Al netto del rimando alle organizzazioni internazionali, un po’ generico per essere decisivo, è importante osservare che il controllo di giurisdizionalità pare sottoposto a un netto riparto dell’onere della prova. Il Giudice deve partire dalla presunzione di sicurezza del Paese indicato come tale dallo Stato Nazionale, che può essere vinta solo se il richiedente asilo fornisce elementi concreti che dimostrino il rischio di persecuzione o trattamenti inumani nel proprio caso specifico

Un principio importante che se confermato sposta sul migrande un rigoroso assolvimento dell’onere della prova senza lasciar spazio a soluzioni inventate creativamente da questo o quel giudice.

La sentenza definitiva della Corte di Giustizia dell’UE su queste questioni è attesa tra la fine di maggio e l’inizio di giugno 2025, precisando che, sebbene le conclusioni dell’Avvocato Generale non siano vincolanti, esse spesso influenzano significativamente le decisioni della Corte.

In sintesi, la tesi di Richard de la Tour mira a bilanciare l’efficienza delle procedure d’asilo con la tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione internazionale. Indubbiamente un passo avanti

E che vi sia bisogno di certezza del diritto in materia di regolamentazione dell’immigrazione è un’esigenza sempre più sentita nel nostro Paese, sempre “i buoi non siano già scappati dalla stalla”. Ormai da decenni viviamo in un contesto in cui su questo tema viviamo scontri ideologici con scarsa propensione per la soluzione dei problemi concreti.

Da un lato, non possiamo negare la necessità di forza lavoro straniera per motivazioni che non è il caso di riassumere in questa sede ma certamente note. Dall’altro, la gestione incontrollata del fenomeno migratorio ha contribuito in maniera determinante a moltiplicare la criminalità urbana – secondo le statistiche – a matrice straniera. E proprio l’ampio e abusato ricorso alla protezione internazionale come veicolo di ingresso nel paese, ci dice che è proprio da lì che bisogna partire per regolamentare il fenomeno, come testimoniano anche operatori del settore che non possono essere certo qualificati come pericolosi fascisti o razzisti. Emerge con forza il fallimento delle politiche di integrazione sin qui perseguite e il rischio di “invasione” non solo in Italia ma in tutta Europa, è un rischio concreto

Una colonizzazione che non avviene in punta di spada ma in punto di demografia e “cultura” per cui spesso le comunità straniere in larga parte islamiche non sentono né vogliono integrarsi.

Prova ne sia quanto sta accadendo in queste settimane a Monfalcone, dove da un lato, in vista delle prossime elezioni amministrative, si presenta una lista elettorale formata solo da musulmani (sarei curioso di conoscere il programma politico) dall’altro l’Imam della comunità dichiara: “noi non ci vogliamo integrare perché vi sostituiremo” e il candidato sindaco della suddetta lista rifiuta di parlare con una giornalista di Fuori dal Coro, perché ritenuta “troppo piccola” rispetto al proprio capo

Laddove per troppo piccola, non si comprende se alluda al fatto che è donna o alla posizione lavorativamente ricoperta all’interno della gerarchia aziendale.

Insomma, un mix potenzialmente esplosivo, che deve essere assolutamente regolamentato dalle istituzioni sulla base di norme certe, se non vogliamo incappare negli inquietanti scenari già da tempo paventati da Oriana Fallaci.

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