Giornalismo – Ci racconti della sua carriera: com’è nata la passione giornalistica e quali sono stati i passi più importanti che le hanno permesso di diventare un grande nome del giornalismo italiano?
MV: La passione giornalistica è nata prima dalla passione calcistica-sportiva, poi dalla passione politica, infine dalla passione culturale. Ero in provincia, al sud, con una formazione umanistica e filosofica e il mio solo modo di cominciare fu quello di scrivere lettere sfacciate e un po’ intriganti di autopresentazione a direttori di giornali, più qualche articolo in saggio. Qualcuno mi rispose, qualcuno s’incuriosì e così cominciai la mia attività, prima da corrispondente locale, poi in redazione provinciale, infine a Roma o collaborando a quotidiani e settimanali.
Diventai presto, a 27 anni, direttore editoriale di una casa editrice, quindi elzevirista di terza pagina; Montanelli mi lanciò come editorialista, poi fondai riviste e settimanali, l’esperienza in Rai e molto altro. E soprattutto ho scritto molti libri, non di carattere giornalistico. In fondo non sono un vero giornalista. Ho cambiato molti giornali, sono stato poligamo, per inquietudine, per libertà, per conflitti di opinione…
Quali sono le principali differenze tra il giornalismo di ieri e il giornalismo di oggi? Il passaggio dal New Journalism, basato su uno stile narrativo, al Citizen e Data Journalism, fortemente legati all’utilizzo delle tecnologie, in che modo può essere descritto come un’evoluzione del giornalismo e sotto quali aspetti rappresenta, invece, una crisi di esso?
MV: In realtà già il giornalismo classico era la somma di mestieri diversi: tra il cronista di strada, l’inviato di lusso o di prima linea, il “culo di pietra” che lavora in redazione (“fa desk”, si diceva), il capo-redattore, il commentatore e opinionista (editorialista, critico, scrittore di terza pagina), e il direttore che è il surrogato di Dio in redazione perché decide ogni giorno le sorti del mondo sul suo giornale, si definiscono come giornalisti mestieri molto diversi, mansioni differenti, che richiedono abilità molto distanti tra loro.
Oggi molte figure del passato sono obsolete o rivivono in contesti assolutamente inediti, e l’impatto della tecnologia ha avuto straordinari effetti, non solo su chi scrive, ma anche su chi legge e sui confini che un tempo dividevano chi scrive e chi legge. L’originalità è ancora data dalla cultura, dall’opinione e dalle inchieste ad hoc, controcorrente.
La digitalizzazione ha cambiato profondamente le regole del mondo. Oggi, attraverso la tecnologia, è possibile trascendere lo spazio e controllare il tempo: la facilità di condivisione e distribuzione di qualsiasi contenuto sta producendo rivoluzioni e terremoti sociali. Spesso ci troviamo in una dimensione in cui sembra possibile avere tutto, ma diventa difficile scegliere qualcosa. In questo contesto che cos’è l’informazione e dove bisogna cercarla?
MV: Sperimentiamo in effetti la vertigine della libertà e rischiamo l’ignoranza per overdose di notizie, e non per carenza. Il senso critico e la capacità selettiva di chi scrive e di chi legge oggi sono indispensabili per non naufragare nel mare magnum del web ma per saper filtrare, distinguere, stabilire priorità. L’informazione corretta nasce solo dal paragone tra le fonti, la rielaborazione critica di chi scrive e di chi legge e la capacità di interpretazione e confronto che si è in grado di esprimere.
Disporre di più mezzi non implica ipso facto avere una superiore conoscenza; anzi, la finta sapienza enciclopedica del web unita a un malinteso senso della sovranità popolare e della democrazia stanno producendo un mix devastante di ignoranza e arroganza, ovvero di ignoranza presuntuosa che si sente in diritto di giudicare tutto e tutti senza avere gli strumenti di conoscenza adeguati.
Il giornalismo sembra avere un legame ormai indissolubile con il mondo economico-industriale e politico. Quanto questo rapporto è pericoloso per l’informazione e quando la notizia cessa di essere un aiuto, diventando un problema?
MV: In realtà non è solo di oggi, il giornalismo è quasi sempre stato espressione di interessi e di moventi estranei all’informazione. La commistione con gli interessi economici, industriali politici, è un intreccio estremamente pericoloso. Diciamo che l’informazione corre tre rischi: il rischio classico è la faziosità per ragioni politiche e ideologiche; il rischio permanente è il sensazionalismo che distorce la realtà per vendere di più e andare incontro ai gusti morbosi del mercato; il più insidioso è la subordinazione dell’informazione al potere, non solo economico-padronale ma anche ai suoi intrecci politici da un verso e i condizionamenti dei committenti pubblicitari dall’altro. La notizia povera e nuda corre molti rischi lungo la strada, rischia di non arrivare a destinazione o di essere stravolta e deviata lungo il percorso.
Oggi i professionisti dell’informazione sembrano essersi trasformati in meri intrattenitori di lettori e spettacolo, alla ricerca di visualizzazioni. In un contesto come quello odierno, crede che il giornalista possa ritrovare la sua vera essenza?
MV: I confini tra il giornalismo, l’influencer, l’intrattenitore, si sono fatti molto labili, e credo che sia difficile immaginare un ripristino di condizioni precedenti, peraltro un po’ idealizzate. D’altra parte il potere delle immagini e l’efficacia delle informazioni online, costringono il giornalista a cercare di dare qualcosa in più tramite la narrazione spettacolare. Quel che reputo possibile è la ramificazione dei generi, la nascita di nicchie o bacini di lettura e di ascolto, insomma di scenari differenziati per generi e per livelli. Il giornalismo è comunque dentro un preciso triangolo: la ricerca della notizia, la capacità di raccontarla e il taglio interpretativo che si riesce a dare. Poi viene tutto il resto. E ciò che esula da quel triangolo non è giornalismo.
Quali potrebbero essere gli scenari futuri del giornalismo e che cosa consiglierebbe ad un aspirante giornalista che ha ancora fiducia in questa professione?
MV: il consiglio preliminare che do è uno sconsiglio, non proseguite, uno su mille ce la fa, è difficile, non perdete tempo, rischiate di restare frustrati o di ritrovarvi a fare tutt’altro rispetto a quel che pensate di fare, magari seguendo una certa mitologia cinematografica del giornalismo. Poi assunzioni e rapporti duraturi meglio scordarseli. Se però l’aspirante è impermeabile agli scoraggiamenti, tetragono rispetto ai consigli più saggi, allora batta a tappeto le strade a partire da quelle che reputa più affini al suo modo di essere e di intendere il giornalismo. A mio parere la strada maestra è quella di non fare come gli altri.
Ovvero se riesci a distinguerti, a non seguire il trend e i canoni, a battere strade inesplorate, magari sei notato, desti curiosità, molto più che se sei allineato e conforme. Gli scenari futuri sembrano indicare il giornalismo come seconda attività, quasi come hobby, o come attività riservata davvero a pochi, perché il giornalismo faidate, il giornalismo autoreferenziale e la convinzione che tutti possano fare tutto (evoluzione di quel mix arroganza/ignoranza ed estensione della teoria che “uno vale uno”) rischiano di stemperare il mestiere di giornalista; nel vasto calderone in cui siamo a turno qualcosa, essere mutevoli, plurali e precari, che toccano un po’ tutto senza sapere niente in profondità. Come c’ la barbarie dello specialismo che denunciava Ortega y Gasset, c’è pure la barbarie del finto enciclopedismo (o wikipedismo), in cui tutto si perde nella superficialità.
(A cura di Elvira Festa)
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