Ho scoperto nel web che il 24 gennaio del 1933 nasceva l’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale per salvare le tre banche di interesse nazionale, (Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Credito Italiano). Alberto Beneduce fu primo presidente dell’IRI. Beneduce, riteneva che l’impulso dello Stato fosse fondamentale per lo sviluppo economico del paese.
Nel 1937 l’IRI divenne permanente ed ebbe un fondo di dotazione. L’attività delle sue aziende comunque veniva in grande misura finanziata con l’emissione di obbligazioni, e dalla raccolta azionaria. Nacque in quel momento il “sistema IRI”. Partecipazioni statali ma in una cornice di redditività e imprenditorialità.
Il miracolo economico italiano
Dal 1945 l’IRI fu artefice e protagonista del miracolo economico italiano. A metà degli anni 70 la prima recessione dal dopoguerra coinvolse l’Italia e anche l’IRI. Fu delegato all’IRI il salvataggio di molte aziende in difficoltà, provocando il dissesto dei bilanci dell’IRI. Bilanci che torneranno in pari solo nel 1986.
Il trattato di Maastricht e i nuovi orientamenti politici connessi con la crisi della finanza pubblica obbligarono ad un vasto programma di privatizzazioni. L’IRI divento una s.p.a. nel 1992. E con un programma di privatizzazioni forzate da 60 miliardi di Lire cessò di esistere il primo dicembre del 2002.
Prodi e la chiusura dell’IRI
Smantellare e svendere le partecipazioni statali non fu una buona scelta. Lo afferma, tardivamente, anche Romano Prodi già presidente e, in pratica, liquidatore dell’IRI. Secondo l’ex premier infatti l’azzeramento delle partecipazioni statali fu obbligato dalle regole dell’Unione Europea. Il motivo dell’errore sta nella differenza tra imprenditore pubblico e imprenditore privato cioè capitalista. Il pubblico vede l’impresa in ottica macroeconomica e il guadagno come un vincolo. Il PIL è l’obbiettivo. Il privato vede l’impresa in ottica microeconomica. Non ci sono vincoli. Il guadagno è l’obbiettivo.
In ottica microeconomica i dipendenti costano, come gli impianti. Si compra un azienda e si chiude anche se rende. Si delocalizza la produzione. Per risparmiare si licenziano gli operai e si chiudono gli impianti. Tutto guadagno per azionisti e investitori.
In ottica macroeconomica dipendenti, impianti e servizi sono tutto PIL. Si compra l’azienda e se serve si risana rendendola socialmente utile. Guadagnando equamente si rispetta l’uomo e si calmierano gli stipendi. Con più posti di lavoro cresce il PIL e con esso il tenore di vita e i servizi pubblici. Le risorse economiche vengono ridistribuite a favore dell’equità sociale.
Il contrasto insito nelle due visioni, non può essere regolato dal mercato, imperfetto perché asimmetrico. Asimmetrie acuite dalla pandemia e dalla finanza speculativa. Solo lo Stato riportando il mercato a strumento dell’economia può assumere il ruolo di regolatore dell’economia in ottica “macro”.
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