Jan, sono passati cinquanta anni esatti da quel giorno.
Nel Gennaio 1968, i carri armati dell’Urss erano entrati a Praga, a sedare e soffocare ogni velleità indipendentista cecoslovacca dal duro tallone del Patto di Varsavia, mentre nel mondo occidentale la rivoluzione culturale giovanile coglie istanze progressiste.
Siamo nel Gennaio 1969, in Cecoslovacchia le medesime speranze, negli echi dei loro coetanei oltre cortina, vengono raccolte dai ragazzi di allora, in quella che sarà ricordata come la “Primavera di Praga”, un movimento studentesco contro l’oppressione comunista e sovietica.
È in un giorno di cinquant’anni fa, il 16 di gennaio del 1969, che un giovane studente universitario di filosofia, Jan Palach, poco più che ventenne, come gesto estremo contro la censura, ed auspicando uno sciopero “generale ed illimitato” contro le idee staliniste, si presenta in Piazza Venceslao, ai piedi della scalinata del Museo Nazionale, si versa addosso una tanica di benzina e si appicca il fuoco con un accendino.
Morirà tre giorni dopo, in penosa e lucida agonia, dopo aver rivelato ai medici di aver preso a modello nel suo gesto i monaci buddhisti.
In 600.000 parteciperanno ai suoi funerali, sfidando il veto del regime. Ma non un poliziotto si vedrà quel giorno.
Ha gli occhi tristi Jan Palach nelle foto da poco più che adolescente, presagiscono un destino pesante e tragico; sotto la sua pettinatura con la divisa dei nostri padri, unita ad un timido accenno ribelle di capelli lunghi, per me è come una persona di famiglia.
Mio padre, suo coetaneo, me lo ricordava già da ragazzo: con il suo gesto eroico lo considerava una figura di riferimento, fondamentale in quel processo di implosione che vent’anni dopo avrebbe portato al crollo del comunismo sovietico, emblema della sua bestiale ferocia nel soffocare gli aneliti di libertà personale e delle coscienze.
Ma era un’eccezione ricordarlo, l’oblio era già calato sulle vicende Cecoslovacche nell’Italia dei primi anni 80.
Erano anni nei quali di lui non si parlava, difficile anche reperire notizie certe, nel silenzio imposto dall’ideologia imperante nel nostro paese post-anni di piombo.
Gli esponenti del PCI espressero emozione e preoccupazione di maniera
Già alla fine degli anni sessanta, ovviamente, passò quasi invisibile quell’estremo gesto disperato e sublime nella sua grandezza: ci si preparava ai governi di compromesso storico di una compiacente DC con il PCI che, dal canto suo, anche nei suoi esponenti più moderati e miglioristi, come Giorgio Napolitano, rimaneva agnostico ed ambiguo all’arrivo a Praga dei cingolati sovietici: si dicevano emozionati ed al contempo preoccupati, ma consci che, in fondo, essi assicuravano progresso, pace e libertà, genuflessi a chi faceva arrivare loro danaro fresco. Dicendo che il bianco era nero, ed il nero era bianco.
Nulla di particolarmente nuovo, peraltro.
Nelle piazze andavano in scena battaglie non troppo diverse da quelle che vediamo oggigiorno: frange oltranziste di sinistra erano impegnate a sfogare la loro genetica violenza, contro i “questurini” e “celerini”, Poliziotti e Carabinieri in assetto antisommossa, muniti di miseri strumenti per ordine pubblico, esposti ad un’occhiuta ed inclemente censura giornalistica, armati di manganello ed elmetti M33 ancora nella foggia della seconda guerra mondiale. Sotto quegli elmetti desueti ed inadeguati, a prendere le botte, i veri figli dei proletari, come scrisse Pasolini; dall’ altra parte della barricata i figli di papà, annoiati rampolli in eskimo che giocavano alla “rivoluzione proletaria”.
Nulla di particolarmente nuovo, anzi.
In Cecoslovacchia, la dittatura del proletariato, cioè della Nomenklatura sovietica, i loro coetanei la conoscevano davvero, sulla loro pelle e, al contrario, vi si ribellavano. Nel colpevole e complice silenzio dei media. Nel silenzio complice dei benpensanti occidentali che, nel caldo dei salotti “bene”, inneggiavano invece all’ideologia marxista.
Con il suo gesto estremo Jan Palach portò all’ attenzione del mondo quella reale tragedia: diventò il simbolo della “primavera di Praga”.
Se fosse stato meno coraggioso, oggi egli sarebbe un anonimo settantenne, forse docente in pensione di filosofia di qualche università europea, come i suoi compagni di corso.
Invece lui era destinato dalla sua malinconica sensibilità a qualcosa di tragicamente più grande.
Ed immortale.
Un altro ragazzo ventuno anni dopo, nel 1989, in Piazza Tienanmen a Pechino, in quella che non a caso fu chiamata la Primavera democratica cinese, ne ripercorse idealmente le gesta: fermò opponendosi con il suo corpo, una colonna di carri armati governativi. Cinesi stavolta, comunque comunisti, comunque chiamati a soffocare una rivolta giovanile contro il regime al potere.
Qui a Firenze a Jan Palach è stata intitolata, distrattamenteed oltraggiosamente, una via, una viuzza, un viottolo direi, sormontato da un cavalcavia, uno svincolo di quello stradone che noi fiorentini chiamiamo “il metano”, via di grande comunicazione di periferia, grigia ed anonima come i palazzoni che il regime edificava all’epoca nell’ Est europeo. Questa l’attenzione dei “democratici” nostrani, un ennesimo sfregio che dovrebbe offendere tutti noi.
Il ricordo in patria
In Cecoslovacchia, il presidente Václav Havel, alla caduta del Muro di Berlino, gli dedicò una lapide in piazza San Venceslao, a Praga e, per ironia della Storia, la Piazza Armata Rossa nel 1989 fu mutata nel nome, dedicandola al giovane martire, a suggellare il passaggio dai cingolati sovietici agli eroi della libertà.
Anche un film ha ricordato la sua vicenda: Jan Palach, diretto dal regista Ceco Robert Sedlácek: è una pellicola intimista, che parla di un ragazzo idealista convinto che fosse suo dovere risvegliare la coscienza di una nazione addormentata e sacrificare se stesso per la sua libertà.
Il regista, in un’intervista, lo ha definito «uno dei più grandi eroi della nostra storia. Ogni popolo ha eroi che lo rappresentano e uno di questi per noi è Palach, un personaggio fuori dal comune. Ma perché parlare di lui oggi? Perché la sua storia sia da monito per noi e le future generazione, anche se la situazione dei nostri giorni non è paragonabile a quella dei tempi di Palach, quando bisognava dichiarare che il nero era bianco, il bianco era nero e che l’occupazione era un “aiuto fraterno”».
Una realtà di Neolingua e stravolgimento della realtà che rivive anche ai nostri giorni.
Nel silenzio del regime, altri sette ragazzi si tolsero la vita in nome della libertà.
Che il loro sacrificio non sia stato vano lo ha già sentenziato inappellabilmente la Storia, quella che solo i grandi fanno; auguriamoci che anche i poveri in spirito sappiano coglierne il grido.
Dicevano gli antichi Greci che muore giovane chi è caro agli Dei.
Perché giovane e libero vive per sempre.