Italiani, oggi è la nostra vera festa nazionale. Viviamo un ciclico, perenne otto settembre. Anche se non c’è la guerra, anche se non c’è il fascismo, la sindrome del voltafaccia, del tradimento versipelle e della cessione di sovranità si ripete a ogni giro di boa, a un livello sempre più basso, e sempre più infame, inventandosi ogni volta un fascismo che non c’è più, un tiranno da rovesciare e un’inesistente guerra alle porte da sventare.
Lo spirito dell’8 settembre è ancora vivo e operante. Non a caso, l’8 settembre è pure il dodicesimo anniversario del Vaffa day di Beppe Grillo. Un movimento nato o consacrato l’8 settembre contro tutti i poteri e i potentati; e con quella parola chiave non poteva che concludere la sua parabola ingloriosa negli stessi giorni di settembre, nel modo a cui stiamo assistendo, asservito all’eurocrazia e alla cupola della sinistra, tramite un pregiato maggiordomo, il prof.avv. Giuseppe Conte e il suo Badoglio bis.
L’8 settembre è la sintesi della nostra storia e del carattere proprio delle nostre classi dirigenti, sovrastanti e dominanti, ben riassunto in un verbo inventato dagli angloamericani, il verbo badogliare (to badogliate) dal famoso Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, capo provvisorio del governo italiano.
Per gli storici Renzo De Felice ed Ernesto Galli della Loggia l’8 settembre segnò la morte della patria; a me pare invece che si sciolse il nesso tra gli italiani e lo Stato, tra il Paese e le istituzioni e ciascuno fu lasciato in balia degli eventi e di se stesso. Fu sicuramente il giorno in cui gli italiani avvertirono lo spaesamento e lasciarono l’Italia all’ufficio oggetti smarriti.
Sul piano storico l’8 settembre è una data fittizia, o quantomeno convenzionale. Il nuovo governo italiano voleva che la data dell’Armistizio fosse resa nota più tardi; gli americani invece desideravano anticiparla perché avevano urgenza di dare psicologicamente un supporto allo sbarco dei loro soldati a Salerno. L’8 settembre è una data simbolica e teatrale, perché è la rappresentazione pubblica e drammaturgica di un fatto già avvenuto e che avrebbe preso corpo solo successivamente. L’evento cruciale risale, in realtà, all’armistizio di Cassibile del 3 settembre; e l’armistizio lungo fu sancito a Malta il 29 settembre col passaggio di fronte dalla parte degli Alleati angloamericani. Infine ci fu la dichiarazione di guerra dell’Italia post fascista alla Germania, il 13 ottobre, più di un mese dopo rispetto all’Armistizio.
Cosa resta negli italiani dell’8 settembre del ’43? Nella memoria poco o niente, nel carattere tanto o tutto. Resta lo spaesamento, nel senso etimologico di perdita del Paese. Resta la desolazione, anche nel senso di perdita del suolo. Resta la fine dello Stato, alibi sontuoso per il sisalvichipuò dell’egoismo e del familismo amorale. Resta la religione di Kazzimiei; badiamo ai fatti nostri che qui non si capisce niente e il potere cambia, si rovescia da un giorno all’altro. Dell’8 settembre resta poi il disprezzo per le classi dirigenti, la voglia di scappare dalla storia o di defilarsi, la via del tradimento e della resa pur di non caricarsi di responsabilità e la sub-filosofia italiena del tirare a campare. Restano i rancori tra le fazioni, anche se si è dimenticata la ragione storica e ideale che le animava. Resta il peggiore degli antifascismi, quello a babbo morto, ossia a fascismo caduto e poi sepolto, usato per criminalizzare l’avversario e accreditarsi come salvatori.
L’8 settembre non ricorda l’Italia divisa in due, come ripetono i somari e i sommari di storia, perché l’Italia non si spaccò in due ma in quattro: l’Italia fascista, l’Italia partigiana, l’Italia sabaudo-badogliana e l’Italia neutrale, democristiana in pectore. L’8 settembre non fu il bivio tra chi restò a fianco dei tedeschi e chi passò al fianco degli alleati; prevalse la frantumazione del Paese, l’individualismo e il rifugio nel privato. L’Italia si fece in quattro, come quando si traccia una croce su un cerchio. Ci fu l’Italia che si strinse intorno alla monarchia e riconobbe nel Re l’ultimo straccio di legittimità dello Stato, un’Italia in prevalenza moderata e centro-meridionale. Ci fu un’Italia che si sentì fascista malgrado tutto, o solidale con Mussolini e il regime, che identificava con l’Italia; o almeno legata a un patto d’onore, per una guerra intrapresa. Ci fu poi un’Italia che si riconobbe nella lotta partigiana nel nome della libertà ma per molti di loro lo scopo finale era la rivoluzione per instaurare in Italia il comunismo, i soviet e la dittatura del proletariato. E ci fu infine un’Italia neutrale che non si riconosceva nelle italie configgenti, ma si teneva alla larga, prudente, impolitica e cattolica, innalzava il suo “Tengo famiglia”; arretrò nel privato, si rifugiò in famiglia e nella Provvidenza e ritenne l’8 settembre, proprio come Alberto Sordi, una “chiamata a casa, un ritorno a casa, sciogliete le righe, siamo ormai privati cittadini”. Ciascuno dei quattro spicchi era una fetta verace d’Italia; alla fine prevalse però l’ultimo, che assorbì anche il primo, il segmento monarchico-moderato, lasciando agli estremi le due ali, nostalgica e antifascista.
L’8 settembre non ci fu la morte della patria ma si sciolse il nesso tra gli italiani e lo spirito pubblico. Una nazione allo sbando, in cui gli sbandati si sentirono divisi in bande che poi divennero partiti. Il senso civico fu sostituito dal senso cinico, e lo Stato dai Partiti, la fede ideale dall’ideologia. Ma secoli di dominazioni straniere, guerre mondiali e civili, regimi e orrori possono ferire e mortificare ma non abolire un’identità. Da allora la patria cominciò a morire ma restò conficcata e sommersa nell’anima profonda degli italiani, gravidi di una resurrezione che deve ancora avvenire. L’8 settembre gli italiani furono spaesati e si barricarono in casa; ma l’Italia restò l’Italia, nel bene e nel male, inghiottì le sue tragedie dentro il suo grembo atavico. Perché una patria è quel che resta dopo l’uragano.
MV, La Verità, 8 settembre 2019