Il tempo è canaglia e galantuomo; canaglia per quel che ruba, galantuomo per quel che restituisce. Uccide, invecchia, logora, distrugge ma a volte dona, ripara, riabilita, rinsavisce. Il tempo grande scultore, per Marguerite Yourcenar. Il tempo lungo nella noia, breve nella gioia…
Per pensare al tempo non è più tempo di filosofi, di artisti, di poeti e letterati, ossia non è più tempo di riferirsi – solo per fermarsi al secolo da cui proveniamo – alle intuizioni di Henri Bergson, agli orologi molli di Salvador Dalì, alle poesie di Jorge Borges e al tempo perduto di Marcel Proust. Né è più tempo di tornare agli antichi, ritrovare Parmenide che lo reputa illusorio; il tempo immagine mobile dell’eterno di Platone, e poi Plotino e Sant’Agostino, fino a Spinoza. Oggi, nell’epoca del tecno-scientismo, l’unico modo consentito per pensare al tempo è affidarsi ai fisici e alla ricerca scientifica.
C’è ormai una coppia di fatto, in rima baciata, che sforna best-seller cosmo-fisici di grande successo: il tandem Rovelli-Tonelli. Dopo che Carlo Rovelli ha trattato del tempo, è ora la volta di Guido Tonelli che dedica un intrigante saggio al Tempo col sottotitolo Il sogno di uccidere Chronos (ed. Feltrinelli). Un saggio che troneggia nelle librerie, come il suo precedente, Genesi.
Ai fisici è permesso offrire una narrazione scientifica del tempo e farcirla riccamente con citazioni di filosofia e arte, poesia e letteratura. E soprattutto mitologia. È curioso il ponte tra il mito e la scienza, bypassando le sponde della fede e della storia; non mancano nemmeno quelle, però sono marginali e sempre “corrette” (se non c’è nazismo non è storia, anche se il libro tratta degli ultimi miliardi di anni del cosmo). Noto di passaggio che nelle ultime pagine del libro di Tonelli si affaccia una guerra fratricida con Rovelli, definito “assassino del Tempo”, reo di far parte della setta di fisici che reputa il tempo un’illusione, non esiste e la fisica può farne a meno.
Il viaggio che compie Tonelli è affascinante e istruttivo. Ci dà visuali e informazioni e fa capire anche a noi profani almeno la crosta dell’indagine fisica sul tempo. Ma alla fine ne sappiamo come all’inizio, non dà risposte, neanche le suggestioni cronicide di cui sopra; anche se cerca di trasformare la sconfitta in una vittoria perché esulta per i dubbi e l’incertezza, “prerogative affascinanti del nostro lavoro”. Sarà, ma dalla scienza ci aspettiamo non dico la realtà vera del mondo però almeno un’approssimazione di verità, una svolta fruttuosa. Il tempo resta un mistero: se l’infinito è troppo grande per noi umani non è colpa della scienza. E’ un nostro limite, non siamo dei.
A questo punto, se ci dobbiamo baloccare con le ipotesi, friggerci nei dubbi, non è più bello leggere il tempo con altre lenti più fascinose, che almeno ci donano la bellezza ardita del pensiero, dell’arte, dello stupore creativo? E allora riprendiamo in mano i filosofi, gli artisti, i poeti, i letterati e tuffiamoci nella mitologia, senza mediatori fisici, e senza disdegnare i racconti biblici e le grandi narrazioni metafisiche sulla fondazione del mondo. Perlomeno rendono sognanti quei dubbi, ci donano grandiose visioni e saperi che ci fanno capire meglio la storia, l’antropologia, il sacro, il cammino dell’uomo.
Così, volendo uscire all’aperto, fuori dai laboratori di ricerca, possiamo dire non cosa abbiamo trovato a proposito del tempo, ma cosa stiamo cerchiando. Cerchiamo di eludere la gabbia del tempo, il determinismo, la parabola fatale tra l’essere e il nulla. Rifiutiamo il tempo inesorabile, la freccia che va solo in una direzione, il tempo lineare e progressivo, meccanico. E cerchiamo risposte in varie direzioni: la più ragionevole è quella di relativizzare il tempo, capire che l’intensità non coincide con la durata, direbbe Bergson.
O l’aspirazione a neutralizzare il tempo, farci impermeabili allo scorrere del tempo, o ritenere che si possa addirittura sospenderlo, come narrò Borges. O ancora, ritenere il tempo un’illusoria facciata; in realtà nulla finisce nel tempo, semmai appare e scompare al nostro sguardo; fino a lambire il pensiero che tutto sia eterno, secondo la teoria di Emanuele Severino. Oppure si può tornare alla dottrina ciclica delle civiltà tradizionali e dei pensatori tradizionalisti; o all’eterno ritorno di Zarathustra, che svela la curvatura del tempo.
E condire il pensiero tornante con la bellezza dei ricordi, la forza viva della memoria, il canto agrodolce della nostalgia, che leniscono le ferite del tempo, placano la sua corsa, curvano la sua traiettoria e ci restituiscono la magia del tempo che fu.
Tonelli ci ricorda che non si può separare il tempo dallo spazio, sono interconnessi, come intuì Ernst Junger in Al muro del tempo. E dopo averci portato sulle montagne russe del cosmo, terrorizzandoci con vertiginosi numeri e miliardi d’anni, catastrofi immani, l’universo che si fa freddo, buio e spettrale, ci apre impensabili feritoie; ci dice, ad esempio, che tra tante vite effimere, ci sono pure gli eterni, presenti dall’inizio del mondo. Sono gli elettroni e i protoni. Un tempo si chiamavano dei. Trovo consolante che vi siano entità eterne, per quanto ineffabili, e trovo consolante la descrizione dei meccanismi perfetti dell’universo, che non si logorano mai, non si corrompono. Fanno pensare a un ordine intelligente, non a un Kaos.
Il fisico ci avverte che non si può invertire la corsa del tempo, non si può congelarlo come se fossimo fotoni o al centro di un buco nero né dichiararlo illusorio; il passato non torna, però – dice Tonelli – si può ripristinare lo stato originario, ricrearne le condizioni con una “riflessione temporale”. Non si torna indietro ma all’Inizio. Non siamo del tutto in balia del tempo. Il tempo è uscito dai cardini, diceva Shakespeare: si tratta di rimetterlo a posto.
MV, La Verità
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