La “Liberazione” e le sue ferite: il coraggio della verità storica

La “Liberazione” e le sue ferite: il coraggio della verità storica

La data del 25 aprile 1945 è celebrata come il giorno della Liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista.

Tuttavia, la fine della guerra non portò immediatamente alla pace. Anzi, in ampie zone del Nord Italia, soprattutto in Emilia- Romagna, si aprì una fase oscura di violenze politiche, vendette private e giustizie sommarie, a lungo trascurata dalla narrazione ufficiale della storia repubblicana

L’area compresa tra le province di Reggio Emilia, Modena, Bologna e Ferrara fu teatro di un’ecatombe politica che passò alla storia come il “Triangolo della morte” o “Triangolo rosso”.

In questa regione, tra il settembre 1943 e il 1949, e con una particolare intensificazione nei mesi successivi al 25 aprile 1945, si consumarono migliaia di omicidi politici.

Le violenze furono perpetrate andarono ben oltre la punizione dei collaborazionisti fascisti:
vennero sistematicamente eliminati anche avversari politici (antifascisti non comunisti,.cattolici, monarchici) e semplici sospettati, in un clima di odio ideologico e di regolamento di
conti personali.

Tra le vittime più emblematiche si possono ricordare don Umberto Pessina, parroco di Correggio, assassinato il 18 giugno 1946 da un gruppo legato ai GAP comunisti per la sua.influenza tra i giovani cattolici locali

Giuseppe Fanin, sindacalista cattolico ucciso a San Giovanni in Persiceto nel 1948 da estremisti comunisti, in quanto rappresentante di un sindacalismo indipendente (Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, 2003).

Secondo una stima di Ferruccio Parri, primo presidente del Consiglio dell’Italia liberata e comandante delle brigate partigiane autonome, le vittime della giustizia sommaria furono circa 30.000 (“Intervista a Ferruccio Parri”, Il Tempo, 1953). Più prudente fu il ministro degli
Interni Mario Scelba, che nel 1947 parlò di 17.000 uccisi (Relazione al Parlamento sulla.situazione dell’ordine pubblico).

Come osserva lo storico inglese Paul Ginsborg, “la violenza che continuò nel dopoguerra fu, in parte, il frutto di una guerra civile che il paese non aveva saputo metabolizzare” (Storia
d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, 1989)

A gettare luce su questi eventi dimenticati furono, anni dopo, coraggiosi giornalisti e storici
indipendenti.

Giampaolo Pansa, nel suo libro Il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer, 2003), racconta in modo crudo la realtà delle vendette partigiane.

Il suo lavoro, basato su testimonianze dirette, documenti d’archivio e cronache locali, narra di come tra le vittime non vi fossero solo colpevoli di crimini fascisti, ma anche semplici iscritti al Partito Nazionale Fascista, contadini, imprenditori, sacerdoti e persino partigiani non comunisti.

Pansa sottolinea: «Non fu solo
una resa dei conti. Fu anche un tentativo di imporre con il sangue una nuova egemonia politica»

Analogamente, Giorgio Pisanò, in Il triangolo della morte (Mursia, 1992), fornì un’opera pionieristica raccogliendo un elenco nominativo di circa 4.500 vittime solo tra Bologna,Ferrara e Modena. Pisanò evidenziò come “le vendette comuniste assunsero in molti casi un carattere di pulizia politica sistematica”, spesso pianificata in seno ai Comitati di Liberazione Nazionale (CLN) dominati da esponenti del PCI.

Di fronte alla situazione esplosiva dell’Italia del dopoguerra, Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano e Ministro di Grazia e Giustizia nel governo di unità nazionale,promosse nel 1946 un provvedimento di amnistia generale

La cosiddetta amnistia Togliatti
(Decreto Presidenziale n. 4 del 22 giugno 1946) comprendeva i reati politici, inclusi quelli di collaborazionismo e le violenze del dopoguerra, sanando di fatto sia crimini fascisti che partigiani.

L’obiettivo dichiarato era favorire la pacificazione nazionale e il consolidamento dello Stato democratico

Tuttavia, come evidenziato dallo storico Ernesto Galli della Loggia, “l’amnistia
servì anche ad assicurare l’impunità ai comunisti che, in alcune zone del Nord, avevano praticato una brutale epurazione politica” (La morte della patria, Laterza, 1996).

Il provvedimento fu accolto con sollievo da ampie fasce della popolazione, stremate dalla.guerra, ma suscitò anche fortissime critiche, specie da parte delle famiglie delle vittime e dei settori più moderati dell’antifascismo

Non solo nell’immediato dopoguerra, ma anche negli anni successivi, chi cercò di riaprire il discorso sulle violenze del “triangolo rosso” incontrò un duro ostracismo. Perfino figure della
sinistra comunista che invocarono verità storica e giustizia umana vennero marginalizzate o silenziate.

Molte famiglie, per decenni, rimasero senza risposte. Solo a partire dagli anni Novanta, grazie a una nuova storiografia più libera da condizionamenti ideologici e alla testimonianza di coraggiosi cittadini, iniziò un lento processo di restituzione delle salme e di riconoscimento
delle vittime, come documentato nelle ricerche di Mimmo Franzinelli (Le stragi nascoste, Mondadori, 2003)

Anche grandi intellettuali furono duramente osteggiati per aver osato raccontare questi capitoli scomodi della storia italiana. Renzo De Felice, autore dell’Intervista sul fascismo (Laterza, 1975), fu vittima di una campagna di delegittimazione da parte della sinistra
comunista e progressista. Venne accusato ingiustamente di “revisionismo” per il solo fatto di aver introdotto il concetto che la storia della Resistenza e del dopoguerra dovesse essere
raccontata nella sua complessità, senza mitizzazioni.

Analogo trattamento toccò a Giampaolo Pansa. Dopo la pubblicazione di Il sangue dei vinti (2003), il giornalista venne attaccato duramente dalla stampa di sinistra e bollato come “nemico della Resistenza” per aver dato voce alle vittime dimenticate delle vendette
partigiane. Pansa raccontò questo clima di isolamento intellettuale nel suo libro La grande bugia (Sperling & Kupfer, 2006), parlando di un “muro di ostilità” che tentò di impedirgli ogni confronto pubblico

L’ostracismo verso De Felice e Pansa testimonia come, ancora molti decenni dopo la fine della guerra, fosse difficile in Italia proporre una narrazione storica capace di accogliere le zone d’ombra accanto alle luci.

La complessa eredità del dopoguerra italiano impone oggi una riflessione libera da pregiudizi ideologici. Come afferma Renzo De Felice, “l’Italia repubblicana ha costruito la propria identità nazionale sulla base di una memoria selettiva della Resistenza e del
dopoguerra” (Intervista sul fascismo, Laterza, 1975).

Ricordare le vendette comuniste non significa delegittimare la Resistenza, ma restituire dignità a tutte le vittime di quegli anni tragici. Significa riconoscere che la violenza non finì con la caduta del fascismo, ma proseguì in forme nuove, alimentata da odio ideologico e da ambizioni politiche

Oggi, a distanza di ottant’anni, è doveroso, come scrisse Norberto Bobbio, “non dimenticare che la storia non è mai bianca o nera, ma una tela complessa fatta di ombre e luci” (Profilo ideologico del Novecento, Laterza, 1993).

Tuttavia, va sottolineato con forza che il silenzio su queste verità storiche equivale a una forma di complicità morale. Ignorare o minimizzare gli eccidi perpetrati nel nome della vendetta politica significa tradire il dovere di giustizia verso le vittime e abdicare alla
responsabilità di una memoria storica onesta

Solo affrontando anche le pagine più dolorose e oscure della nostra storia, senza reticenze né strumentalizzazioni, potremo rendere omaggio alla verità e alla memoria di tutte le vittime, costruendo finalmente una memoria condivisa e matura.Solo il coraggio di riconoscere tutte le ferite del passato, senza selezionare le vittime sulla
base dell’appartenenza ideologica, può rendere autentico il nostro impegno per una società
veramente democratica e consapevole.

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