Una decina di giorni fa si è svolto un interessante convegno, organizzato dalla struttura fiorentina della Lega, sul tema della sovranità. Hanno portato il proprio contributo, oltre ad esponenti leghisti di primo piano a livello regionale e nazionale, tre relatori di particolare valore: la costituzionalista Ginevra Cerrina Feroni, l’Ammiraglio Nicola De Felice, il docente dell’Ateneo di Firenze-Facoltà di Giurisprudenza Marco Sabbioneti.
Il titolo del convegno, che ha riscontrato interesse e partecipazione, era emblematico: “LA PERDITA DI SOVRANITÀ IN ITALIA, da quella del Popolo a quella dello Stato“. È idea diffusa e pressoché unanimemente condivisa che la sovranità statale (in rapporto alle relazioni con altri paesi e sulla scena continentale/globale) sia un principio non pienamente applicato, nella migliore delle ipotesi sbiadito se non offuscato dall’appartenenza dello Stato a consessi internazionali – come l’ONU – ma soprattutto sovranazionali, quali l’Unione Europea e il Patto Atlantico, la cui natura appare mutata: da luoghi d’incontro e interrelazione delle volontà dei singoli paesi per costruire sintesi equilibrate e sostenibili a organizzazioni che, surrettiziamente o meno, con mezzi leciti ma anche forzature, appaiono sempre più vivere di vita propria e considerare gli Stati membri come risorse da utilizzare piuttosto che libere parti di un patto, sì soggette a vincoli e regole comuni, ma portatrici di valori e interessi precipui, e conseguentemente contraenti accordi e risoluzioni tramite negoziati che non ignorino quei punti di partenza. La realtà degli ultimi decenni ci dice che al contrario – molto spesso per quanto riguarda l’Italia – quei valori e interessi, lungi dall’essere evidenziati e tutelati, siano stati penalizzati, con la compiacenza di governi più attenti al proprio tornaconto che a quello del Paese.
Nello specifico la Professoressa Cerrina Feroni si è soffermata sul concetto di sovranità popolare, che – prendendo il ragionamento spunto dalla recente crisi di governo e dal suo sbocco – tende sempre più ad essere soppiantata da quella che è stata definita sovranità parlamentare: quest’ultima locuzione rappresenta una devianza dall’originaria appartenenza al popolo del potere sovrano, che secondo l’articolo 1 viene sì esercitato nei modi e nei limiti stabiliti dalla Costituzione, ma mai può essere espropriato al punto da far divergere del tutto la volontà parlamentare da quella popolare. Ad una valutazione così alta è appunto chiamata la massima magistratura dello Stato, quel Presidente cui la Repubblica non assegna le funzioni di grigio burocrate bensì di attento e sensibile osservatore dell’oggi, nonché interprete di una credibile visione del domani.
L’Ammiraglio De Felice ha incentrato l’analisi sugli interessi propri di uno Stato, spaziando dai più genericamente nazionali a quelli strategici, nonché a quelli precipuamente economici. Il concetto di interesse va salvaguardato, difeso e tutelato dal falso mito di un equilibrio geopolitico da perseguire non come faticosa risultante di negoziati fra interessi contrapposti, ma come felice automatismo globale, secondo una visione panmercatista ben radicata fra gli stakeholder internazionali, cioè i portatori di interessi quali le multinazionali, che a livello globale ‘impongono’ le proprie regole di mercato a scapito di attori economici più qualitativi ma meno strutturati. Se chi fa le regole è anche giocatore la partita è truccata.
Il Professor Sabbioneti ha esposto riflessioni sull’attualità politica nazionale, evidenziando come la nostra sia una Costituzione ‘sociale’, nel senso che sarebbe tesa a valorizzare realtà produttive (in campo economico così come sul piano più scientifico/culturale) che abbiano una positiva influenza sullo sviluppo della comunità nazionale, in termini di sovranità anche a dimensione sociale. In tal senso appare contraddittorio non cogliere e non valorizzare quest’aspetto da parte di una sinistra istituzionale – oggi al governo – che tuttora crede di essere referente del “sentire popolare e sociale”, senza rendersi conto di aver perso quella capacità e quel contatto.
Tuttavia è d’obbligo porre e porsi una domanda: i limiti alla sovranità nazionale e popolare sono tutti esogeni? Le cause della perdita di sovranità sono tutte ascrivibili a fattori esterni al nostro Paese?
Tre ragioni inducono a pensare che non sia così:
1. L’Italia manca di un potente mito di fondazione, un racconto storico che possa essere considerato e sentito da tutti come importante momento fondativo dello spirito nazionale, talmente condiviso da divenire pienamente popolare. In tal senso non si può certo configurare la vicenda storica delle guerre d’indipendenza e della spedizione dei Mille, così come la conquista di Roma nel 1870: tutti episodi di annessione al Regno di Sardegna di porzioni del territorio peninsulare ed insulare, senza che ci fosse alla base un autentico sentimento diffuso. Un’unità territoriale calata esclusivamente dall’alto, a cui farà parziale eccezione il sentimento di fratellanza fra i soldati nelle trincee della prima guerra mondiale, che non a caso trasmise nei cuori di chi combatteva l’ardente desiderio di difendere la nazione e di liberare Trento e Trieste;
2. L’ulteriore assenza di una élite strutturata che, nel periodo dell’unificazione, fosse realmente in grado di trasmettere quel senso di unità nazionale, quel genuino sentimento di italianità che potesse essere percepito come proprio dalle classi più agiate come da quelle più umili, nel Nord e nel Sud del Paese. Tale non fu la classe politica piemontese prima, nazionale poi, e parimenti non riuscirono ad essere funzionali né la classe militare né quella culturale. La vera unica struttura organizzata a cui nel nostro territorio si è sempre guardato come punto di riferimento è stata la Chiesa Cattolica, e autentico sentimento unificante è stato quello religioso;
3. Ciò affonda le radici nell’altro tipico sentimento nostrano, il particolarismo che a livello territoriale si trasforma in campanilismo, ancor oggi molto più avvertito del patriottismo. La nostra ricchezza politica, culturale, economica, industriale, sociale, militare, sportiva, o nei vari comparti dell’amministrazione pubblica e dei servizi privati, è l’estrema varietà delle posizioni, connaturata ad una radicata tendenza a coltivare il proprio circuito di relazioni e convenienze, anziché fare sistema. Per gli italiani l’importante è dividersi, non unirsi…è discutere, non decidere…è speculare (nel senso più nobile e meno nobile del termine), non costruire.
Queste motivazioni certamente non creano le condizioni per poter serenamente condividere e rappresentare la sovranità nazionale: si tratta di vicende storiche e tratti salienti di un popolo che forse tuttora popolo non si sente a sufficienza, ma che trarrebbe solo vantaggio dal comprendere che fare sistema sia l’unica via d’uscita di fronte a sfide impegnative e competitor sempre più agguerriti.
(Ri) Costruiamo le basi della sovranità in Italia, prima che pensarla astrattamente in Europa: solo con quest’obiettivo concreto la classe politica potrà assumersi un mandato credibile per stabilizzare l’UE e renderla strumento di efficace tutela economica, anziché di assurda ingerenza burocratica.