La stampa main stream delira – «Cambia spacciatore!», urla nella cornetta il signore svegliato alle 3 del mattino da un impareggiabile Carlo Verdone, convinto di parlare con la segreteria telefonica della sua ex, nel film Manuale d’amore. Non sarò così maleducato da rivolgere sarcasticamente lo stesso invito a qualche commentatore, ma davanti a certe interpretazioni del dopo voto la tentazione è forte.
Apertura del Fatto Quotidiano di ieri, mercoledì: «L’alleanza M5s-Pd l’hanno fatta gli elettori. Un grillino su due ha votato Eugenio Giani, il 20% ha scelto Michele Emiliano» (quindi in Puglia la proporzione, rispetto alla Toscana, peggiora: uno su cinque, ma transeat). Riferimenti all’unica Regione, la Liguria, dove c’era un candidato davvero espressione concordata della joint venture governativa: Ferruccio Sansa, ex firma dello stesso giornale, che ha rimediato quasi 20 punti di distacco (38,9% contro 56,1%) dal riconfermato Giovanni Toti? Zero.
Ode a Zingaretti dal main stream
Vabbè, si dirà: quel foglio è ormai l’avvocato difensore dell’«avvocato del popolo» Giuseppi Conte, l’house organ della maggioranza giallorossa. Ma il mood della stampa mainstream è questo. Si è passati dal catastrofismo, «i barbari sono alle porte!», condito dalla chiamata alle urne in nome della vigilanza democratica e antifascista, «lo tsunami nero ci sta per travolgere», al «viviamo nel migliore dei mondi possibili». Con l’esaltazione della leadership di Nicola Zingaretti.
Dipinto come il Cesare del Veni, vidi, vici che ha scansato le Idi di marzo (per ora…).
Repubblica di martedì: a tutta pagina «Regioni, il Pd ferma Matteo Salvini». Lettura «lisergica»: si temeva il 4 a 2, si è pareggiato 3 a 3, quindi grazie allo scampato pericolo… si è vinto. Però.
È vero, ci sono stati la perdita delle Marche, il plebiscito per il leghista Luca Zaia, le vittorie in Puglia e in Campania di candidati, Michele Emiliano e Vincenzo De Luca, non amatissimi nel Pd e nel centrosinistra (come nelle pagine interne ricorda Stefano Folli).
Il Pd, ripete il segretario, è «primo partito del Paese»
Ma vai con la grancassa: il Pd, ripete il segretario, è «primo partito del Paese» (al solito, si mescolano a fini propagandistici le mele con le pere: se gli aventi diritto al voto erano 46 milioni per il referendum, avallare il proclama di essere la forza numero uno in Italia basandosi sul 3 a 3 alle regionali, dove i chiamati alle urne erano 18 milioni, appare quantomeno azzardato).
Lo stesso direttore Maurizio Molinari, che si occupa dell’«indebolimento» e della «doccia fredda» del fronte populista-sovranista, ammette che è un po’ «presto» per concludere che questa tendenza valga a livello nazionale, «visto che si è votato in 7 regioni su 20», ecco appunto.
E che dire del referendum? Qui soccorre un disgiunto Michele Serra: «Ho votato No sperando che vincesse il Sì». E perché mai una tale schizofrenia? «Per non dovermi sentire partecipe dell’uso antigovernativo dell’eventuale vittoria del No». Però.
Per il Corriere della Sera il segretario del Pd riemerge dalle doppie urne «con le stimmate del quasi vincente», notare il «quasi», come il «sopravvissuto solitario delle regionali». Invece «il bilancio delle opposizioni è agrodolce, se non amaro: “perdono” vincendo».
Ma allora a rigor di logica vale pure il contrario: i partiti di governo «vincono» perdendo, o no?
La Stampa incensa quella di Zingaretti come «la rivincita dell’uomo tranquillo» (per Marcello Sorgi è addirittura «resuscitato» come Lazzaro). Registra l’euforia onanistica di Luigi Di Maio: «Il referendum successo mio e del M5s».
Renzi
Fotografa un Renzi che «tira il fiato» (stante l’apnea numerica, che comunque non gli impedisce di esagerare con la consueta sicumera: «Si è vinto così anche grazie a noi»). Morale: il centrosinistra va incontro alle magnifiche sorti e progressive, mentre il centrodestra è alla canna del gas.
Salvini è «costretto a leccarsi le ferite», quella della Meloni è una «vittoria a metà», Forza Italia ha un «risveglio choc».
Per fortuna, a bilanciare un’analisi tagliata con l’accetta, ecco ieri l’editoriale assai equilibrato di Giovanni Orsina, con questo incipit: «La notizia della morte politica della destra sovranista è grossolanamente esagerata».
Tant’ è, gli ha fatto eco sul Fatto quell’anarchico «cane sciolto» di Massimo Fini, che «l’unica formazione ad aver guadagnato consensi davvero è quella di Giorgia Meloni» (anche se, aggiunge poi Fini, il partito più forte – paradossalmente: non votato – è quello degli astenuti). Tutto chiaro?
Non dalle parti di Repubblica, evidentemente, che ieri titolava: «Il crollo dei populisti: in un anno svaniti 3,2 milioni di voti». Urca: il centrodestra è con un piede nella fossa. Sentenza cui si arriva con una serie di accostamenti psichedelici: oggi il Pd è al 18,7% e la Lega al 13,1%. Nel Paese?
No: nelle sei regioni andate al voto. Ah.
E quindi? Be’, «nei sondaggi a livello nazionale dell’agosto 2019 la Lega era davanti al Pd di 15 punti». Et voilà la manipolazione. Si shakerano intenzioni di voto e voti effettivi, periodi di riferimento e tipo di consultazione, e il cocktail pro Zingaretti e anti Salvini è servito, cromaticamente: dal verde mojito al rosso Bloody Mary.
Anche se poi, a denti stretti e senza enfasi, si è costretti a riconoscere che nei sondaggi la Lega oggi è ancora davanti al Pd: 25 contro 21. Ma il tempo è a favore di Zingaretti («sono i trend a parlare», mica il mago Otelma): i dati «potrebbero preludere a una rimonta dei dem anche sul piano nazionale», «alle prossime politiche è plausibile che il Pd superi il partito di Salvini».
Insomma, un’apoteosi. Presunta.
Peccato che due pagine prima Repubblica dia la parola al ragionevole Ilvo Diamanti, che vede una «presidenzializzazione diffusa del Paese», con «un’Italia dei governatori» che contano più dei loro stessi partiti. Con l’avvertenza della sondaggista Alessandra Ghisleri sul Messaggero: «È molto complicato assumere il risultato delle regionali come una vittoria politica di un partito o anche come sconfitta di un altro, perché è molto legato alle dinamiche dei territori».
Amen.
Antonello Piroso per “la Verità”
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