Peggio della stupidità c’è solo la stupidità che si presume intelligente. La semplice stupidità o la stupidità dei semplici alla fine la sopporti, può fare in certi casi tenerezza e perfino simpatia. Ma la stupidità complessa o la stupidità dei presuntuosi, che ritengono di rappresentare lo Spirito del Mondo, il Senso Corretto della Storia, è insopportabile. Parafrasando Ortega y Gasset, lo stupido, sentendosi nello spirito del tempo, proclama il diritto alla stupidità e la impone dappertutto.
Citavo non a caso Ortega perché lui si chiedeva come mai nessun filosofo ha dedicato uno studio, un saggio alla stupidità. Lo ha fatto un letterato come Robert Musil, lo ha fatto più di recente un economista brillante, come Carlo M.Cipolla, ma non c’è una teoria filosofica della stupidità. Alla stupidità ha invece voluto dedicare un doppio philoshow, cioè uno spettacolo pop filosofico, la rassegna Biumor di Popsophia a Tolentino, a cura di Lucrezia Ercoli, in questo fine settimana, con molti ospiti (come me “da remoto”).
Il paradosso è che la filosofia e la stupidità hanno la stessa matrice: lo stupore. Platone e Aristotele ci dicono infatti che la filosofia sorge dalla meraviglia, lo stupore di essere al mondo e di conoscere. Ma anche la radice di stupido proviene da stupore, lo stupido è, come il filosofo, uno che si stupisce. La differenza è che nel filosofo lo stupore origina la conoscenza, mentre nello stupido la conoscenza origina lo stupore. Il filosofo passa dallo stupore alla riflessione, lo stupido resta imbambolato nello stupore… Nel filosofo la conoscenza è un processo, nello stupido è un contatto. Il punto d’unione tra il filosofo e lo stupido è il bambino in erba che è in ambedue.
Dicevamo prima la “stupidità intelligente”. Ne scrivevano due pensatori tradizionalisti come Fritif Schuon e Julius Evola e un cattolico come Georges Bernanos se la prendeva con gli “imbecilli intellettuali”. Si riferivano a quella “chiusura della mente”, per dirla con Allan Bloom, che colpisce proprio coloro che presumono di detenere il monopolio del sapere, gli intellettuali saccenti e supponenti; o gli esperti che sanno tutto della loro materia specialistica ma nulla della realtà e dei complessi intrecci; è “la barbarie dello specialismo” (ancora Ortega) senza visione del mondo.
Bisogna aggiornare l’antropologia quando si parla di stupidità. Lo stupido era tradizionalmente l’ingenuo, lo sciocco, che ride facilmente (risus abundat in ore stultorum, ma il riso abbonda anche sulla bocca degli dei). Oppure lo scemo di guerra, che aveva perso il senno in guerra. Si definiva anche cretino, che è un francesismo di origine provenzale e si riferiva al povero cristiano, devoto e ignorante. Ma per Sant’Anselmo lo sciocco, ovvero l’insipiens, era l’ateo nella sua disputa con Gaunilone. Il cristiano puro è invece l’Idiota per Dostoevskij.
Stupido era considerato lo sprovveduto che veniva dalla campagna in città o dalla provincia nel grande centro, chi scendeva dai monti o dalle valli, e già il suo dialetto, il suo modo di vestire, il suo sguardo, denotavano la sua “ingenuità”. Dividendo gli italiani tra furbi e fessi, Prezzolini era indulgente coi fessi, raggirati e oppressi dai furbi. Il racconto nazionale nella commedia all’italiana è tutto giocato sulla doppia corda della furbofessaggine.
Gli stupidi sono considerati la maggioranza, e cent’anni fa Albert Einstein ironizzava sugli stupidi considerando da un verso il loro numero infinito, dall’altro la loro illimitata scemenza. Ma l’istruzione di massa, il progresso scientifico e tecnologico, la democrazia non hanno cancellato, o ridotto, la stupidità; l’hanno solo modificata geneticamente e l’hanno attrezzata di strumentazioni più sofisticate. È passato un secolo e la stupidità ha fatto progressi. Cent’anni di scemitudine, parafrasando Marquez… La stupidità da passiva si è fatta attiva, e dunque produce più danni. Si è fatta tecnologica, hi tech, stupidità ad alta definizione. E’ andata al potere, ha inventato un suo canone e un suo lessico, il politically correct, che è frutto dell’incrocio tra ideologia e stupidità, tra intolleranza e imbecillità.
Dal vecchio prototipo dello stupido – il paesano, il campagnolo, chiuso nel suo piccolo mondo – al nuovo prototipo, “l’idiota globale” che viaggia, conosce le lingue, magari è nativo digitale, naviga nel web; ma pensa da idiota, etimologicamente, cioè chiuso nel recinto ristretto del suo privato, del suo presente e della sua dimestichezza coi mezzi tecnici. Sa mettersi in contatto in tempo reale col mondo, ma non ha nulla da comunicare. Pura stupidità. Imbecille è colui che ha bisogno del baculum, del bastone, per reggersi. Il bastone dell’idiota globale è il suo smartphone o il suo tablet, senza del quale si sente perduto.
Abbiamo girato intorno alla stupidità ma senza definirla. Trattandosi di una carenza proviamo a definirla a rovescio, partendo dal suo contrario. Se l’intelligenza è la capacità di leggere dentro le cose (intus legere), di collegarle e trascenderle, è l’eccedenza del possibile sul reale, la stupidità è l’incapacità di leggere dentro le cose, di collegarle e di trascenderle, è la prevalenza dello stereotipo rigido sulla realtà e sulle possibilità. La pazzia, al contrario, è la prevalenza dell’impossibile sul reale, stabilendo nessi che non corrispondono alla realtà.
E tuttavia una cosa va alla fine ammessa: gli stupidi non sono una razza, un’etnia a sé stante. L’ala della stupidità colpisce a volte anche le menti più acute, notava Baudelaire; a volte il genio è un imbecille discontinuo, eccelle in un campo o nell’intuizione ma è stupido nel resto delle cose, di solito quelle pratiche. Stupidi siamo un po’ tutti, seppure in gradi diversi. Chi di passaggio, chi in prevalenza, chi in permanenza. Si tratta di stabilire la modica quantità e la brevità della sosta.
MV, La Verità
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