No, la verginità non esiste, almeno non da un punto di vista medico-anatomico. Su questa base il Royal College of Obstetricians and Gynecologists (Rcog), che rappresenta gli ostetrici e i ginecologi inglesi, ha pubblicato un appello sul British Medical Journal per chiedere al governo di bandire i test di verginità, visite «invasive e prive di basi scientifiche» volte a verificare l’integrità dell’imene. Il test, si legge nell’editoriale, è offerto da diverse cliniche private del Regno Unito.
Ma è praticato in tutti i Paesi occidentali. A richiederlo sono soprattutto donne e famiglie di religione musulmana, ma non solo: ha fatto scalpore il caso del rapper americano T.I., che ha dichiarato di imporlo ogni anno alla figlia. All’appello dei ginecologi inglesi ha risposto l’italiana Eugenia Tognotti, docente di Storia della medicina e della sanità pubblica all’Università di Sassari: la sua lettera, pubblicata dal British Medical Journal, ricostruisce le origini storiche di un mito. «Verginità non è un termine medico» dice.
La verginità è una costruzione sociale
«Non lo si trova nei grandi trattati di anatomia. È una costruzione sociale. Nel Medioevo l’unica incerta prova della verginità era la tendenza delle donne a sanguinare al primo rapporto». Poi, nel XVI secolo, il fiammingo Andrea Vesalio, considerato il padre dell’anatomia moderna, ebbe l’opportunità di dissezionare il corpo di due donne certamente vergini. «La certezza gli derivava dal fatto che una fosse suora e l’altra deforme» spiega Tognotti.
«Notò un setto di tessuto membranoso attorno all’ingresso della vagina e si convinse di aver trovato la prova fisica della verginità». La descrizione dell’imene apparve nel 1543 sul suo De humani corporis fabrica. In seguito, Vesalio avrebbe precisato che «non tutte le vergini hanno l’imene». Ma ormai era troppo tardi. «Si tratta forse dell’unico caso nella storia della medicina in cui l’evolversi della conoscenza non ha cancellato convinzioni errate. Ancora oggi l’imene è feticizzato. Test non scientifici vengono eseguiti regolarmente anche nei Paesi occidentali.
E il fatto che il mondo medico non sia riuscito a farli bandire la dice lunga sulla posta in gioco sociale, morale e simbolica della verginità». Insomma il problema, oltre che etico, è scientifico, perché l’imene non è un indicatore affidabile di verginità. Secondo la ginecologa Jennifer Gunter, autrice del bestseller The Vagina Bible (la Bibbia della vagina), circa il 50 per cento delle adolescenti sessualmente attive presenta un imene intatto.
Associazione ginecologi
Altri specialisti, invece, sostengono che chi ha avuto rapporti presenta quasi sempre un imene lacerato. Questo disaccordo, secondo diversi medici, deriva dal fatto che le pubblicazioni scientifiche sull’imene sono quasi inesistenti. «Non si lacera sempre al primo rapporto» dice Nicola Colacurci, presidente dell’Associazione ginecologi universitari Italiani. «E di certo non si “rompe” perché, salvo rari casi, non ostruisce l’ingresso della vagina. Non è un sigillo che la occlude, ma una membrana che ne circonda l’apertura esterna».
In Svezia hanno addirittura proposto di sostituire “corona” al termine “membrana”, che evoca l’immagine di un’ostruzione; e la richiesta dei ginecologi è stata accolta dallo Språkrådet, il Consiglio per la lingua svedese. Come spiega Colacurci, il mito dell’integrità imenale nuoce anche alla clinica: «Tra i medici vige ancora la consuetudine di non visitare le donne vergini. Quindi se arriva in ospedale una paziente con sospetta patologia ovarica non posso farle un’ecografia transvaginale. E neanche un controllo vaginale: sono costretto a farlo rettale. Con grande disagio per la paziente ed evidenti limiti per la diagnosi».
IL BOOM DELLA CHIRURGIA INTIMA
Il test di verginità, dunque, è solo la prima di molte questioni su cui la comunità medica comincia a riflettere. In Francia, dopo un dibattito iniziato nel 2020, è appena diventato illegale. Mentre è di agosto la notizia che l’Indonesia non lo imporrà più alle reclute dell’esercito. Ma l’appello inglese aggiunge un tassello importante: la messa al bando dei test «è compromessa senza il divieto di imenoplastica, visto che le due pratiche sono inestricabilmente legate».
Si tratta della ricostruzione chirurgica dell’imene, e non riguarda solo le donne musulmane: è parte del grande business della chirurgia intima femminile, una branca della chirurgia estetica sempre più diffusa, che offre interventi di rimodellamento e rigenerazione dell’area vaginale. In Italia, l’imenoplastica è sponsorizzata da una grande quantità di siti che offrono interventi di chirurgia intima.
Alcuni ne illustrano i vantaggi in italiano e arabo. Uno spiega: «La chirurgia moderna può restituire lo stato di verginità. Dopo questa operazione, alla prima penetrazione si presenteranno nuovamente la difficoltà e il dolore tipico della lacerazione con conseguente perdita di sangue». In realtà la perdita di sangue non è una costante della prima penetrazione. Ciononostante, come spiega Andrea Garelli, chirurgo plastico che opera tra Roma e Milano, «le donne che si rivolgono all’imenoplastica vogliono la garanzia del sanguinamento, soprattutto quelle di religione musulmana. Questa richiesta può essere soddisfatta chirurgicamente.
Ma, in condizioni naturali, il sanguinamento dipende dalla morfologia e dall’elasticità dell’imene. Molte donne, infatti, non hanno alcuna perdita». Garelli, diversamente da altri chirurghi, sostiene di avere tra le sue clienti anche diverse italiane. «Le tipologie sono due. Una è la ragazza minorenne: a volte viene da sola e poi, quando scopre che serve l’autorizzazione di un genitore, rinuncia; altre volte è accompagnata dalla madre.
Imenoplastica
Poi c’è la donna di 45-50 anni. Qui l’imenoplastica è spesso abbinata a un altro intervento estetico: il seno, la liposuzione. Dovendo fare un’anestesia generale, ne approfittano. Magari sono donne al secondo matrimonio, che vogliono fare un “regalo” al marito. C’è un’agenzia specializzata in liste di nozze che per un periodo proponeva ai suoi clienti questa idea. Alcune donne sono arrivate così». In Francia lo hanno definito «il business della verginità».
Ma di fatto è difficile farsi un’idea del numero e della tipologia di questi interventi. ricostruire è una cosa seria Secondo Massimiliano Brambilla della Sicpre, Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva, «le imenoplastiche non sono affatto comuni. In ospedale arrivano pochi casi (Brambilla dirige il servizio di chirurgia plastica genitale al Policlinico-Mangiagalli di Milano). Sono donne che hanno subito violenza o ragazze inviate dai servizi sociali, principalmente di origine nordafricana. Ogni caso deve essere valutato da un’équipe di psicologi. Certo, se un chirurgo si mette a pubblicizzare l’imenoplastica sul web, è chiaro che riuscirà ad attrarre anche altri tipi di persone. Ma il ripristino dell’imene non è un gioco. Quindi la procedura deve essere motivata».
Giulia Villoresi per “il Venerdì di Repubblica”
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