Le Ferite delle Foibe in tre parole: Memoria. Giustizia. Riconciliazione
La storia dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata rappresenta una delle pagine più drammatiche e controverse del Novecento italiano.
Per decenni, questi eventi sono stati relegati ai margini della memoria storica, ostacolati da un muro di silenzi e mistificazioni. Oggi, a distanza di decenni, la necessità di un’analisi onesta e approfondita si impone con forza, basandosi su fonti documentarie e sull’apporto di storici di alto profilo.
Secondo Raoul Pupo, uno dei massimi esperti della vicenda, «le foibe furono un fenomeno complesso, che vide un intreccio tra vendette di guerra, epurazioni politiche e una precisa volontà di ridisegnare l’assetto etnico della Venezia Giulia e dell’Istria».
Il massacro delle foibe, perpetrato tra
il 1943 e il 1945 (o addirittura il 1947) dai partigiani jugoslavi e dall’OZNA, la polizia segreta del regime di Tito, fu un atto di violenza sistematica nei confronti della popolazione italiana.
Non si trattò di episodi isolati o dettati dal caos della guerra, bensì di una precisa strategia politica mirata all’eliminazione della presenza italiana nei territori che la Jugoslavia intendeva annettere.
Stando alle fonti documentarie, gli episodi più rilevanti avvennero in due fasi: dal settembre 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre, quando le truppe italiane si sbandarono e i partigiani jugoslavi occuparono territori come l’Istria e il Quarnaro; dalla primavera del 1945, con l’avanzata jugoslava e la conquista di Trieste, Gorizia, Fiume e Pola, quando si verificò una nuova ondata di arresti e uccisioni, sempre con vittime italiane accusate di collaborazionismo o opposizione al regime comunista jugoslavo.
Le vittime furono militari e civili, spesso colpevoli soltanto di essere italiani. Come evidenzia lo storico Roberto Spazzali, «la repressione colpì indistintamente fascisti, antifascisti, funzionari pubblici, sacerdoti, donne e bambini». Prelevati dalle loro case, sottoposti a processi sommari e infine gettati nelle foibe, morirono in condizioni atroci. Questo sterminio non fu soltanto il frutto di una cieca vendetta post-bellica, ma un tassello del più ampio disegno di pulizia etnica e riorganizzazione
territoriale voluto dal regime comunista jugoslavo.
All’indomani della guerra, fino al 1956 (con i nuovi assetti territoriali, infatti, sanciti dal “Trattato di Parigi del 1947”, l’Italia perse l’Istria, la Dalmazia e gran parte del Friuli orientale a favore della
Jugoslavia; e, nel 1954, il “Memorandum di Londra” definì la situazione del Territorio Libero di Trieste, assegnando la città all’Italia, ma la zona B rimase alla Jugoslavia di cui diverrà ufficialmente
parte integrante nel 1975 con il trattato di Osimo) centinaia di migliaia di italiani furono costretti a lasciare le proprie terre natali per sfuggire alle persecuzioni del nuovo regime. L’esodo giuliano-
dalmata coinvolse tra le 250.000 e le 350.000 persone, che si trovarono improvvisamente straniere in
casa propria.
Le autorità jugoslave imposero discriminazioni, confische di beni e un clima di terrore tale da rendere impossibile la permanenza della comunità italiana nei territori annessi
Come osserva lo storico Guido Rumici, «il fenomeno dell’esodo non fu solo una fuga spontanea, ma il risultato di
una politica di espulsione sistematica».
Un aspetto che ha aggravato la tragedia delle foibe e dell’esodo è stato il lungo silenzio imposto dalla politica italiana.
Per decenni, il Partito Comunista Italiano e altri settori della sinistra hanno
minimizzato o negato questi eventi, per timore di compromettere i rapporti con la Jugoslavia socialista di Tito
Secondo il professor Giuseppe Parlato, «la cultura politica della sinistra italiana ha avuto difficoltà nel riconoscere le responsabilità del comunismo jugoslavo, preferendo in molti casi ignorare
o ridimensionare la tragedia delle foibe».
La narrazione dominante ha ridotto il massacro delle foibe a un fenomeno di “rappresaglia” contro i
fascisti, ignorando il fatto che tra le vittime vi erano anche antifascisti, donne, sacerdoti e semplici
civili. Solo con la legge n. 92/2004, istitutiva del “Giorno del Ricordo”, si è iniziato a rendere giustizia
alle vittime e agli esuli.
Tuttavia, il negazionismo o la minimizzazione della portata della tragedia persistono ancora oggi. Questo atteggiamento non solo offende la memoria delle vittime, ma impedisce anche una vera riconciliazione nazionale basata sulla verità storica
Tra i politici italiani, a mantenere vivo il ricordo delle foibe e dell’esodo, nel corso degli anni, sono stati prevalentemente esponenti della destra italiana: MSI prima e Alleanza Nazionale poi. Tuttavia,
come afferma lo storico Ernesto Galli della Loggia, «la memoria delle foibe e dell’esodo deve diventare patrimonio condiviso, al di là delle appartenenze politiche».
Nel corso degli anni, diverse figure istituzionali italiane hanno espresso riflessioni significative riguardo ai massacri delle foibe e all’esodo giuliano-dalmata. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione del Giorno del Ricordo, ha sottolineato l’importanza di onorare le vittime e promuovere la pace, affermando: «Onorare le vittime e promuovere la pace, il progresso, la collaborazione, l’integrazione, aiuta a impedire il ripetersi di tragici errori, causati da disumane ideologie e da esasperati nazionalismi».
Anche il Presidente Giorgio Napolitano affrontò il tema, riconoscendo le sofferenze patite dagli italiani coinvolti in questi tragici eventi. Nel 2007, durante una cerimonia al Quirinale, Napolitano dichiarò: «Si trattò di un moto di odio e furia sanguinaria, e di un disegno slavo annessionistico, che prevalse soprattutto nella fase finale della seconda guerra
mondiale e in quella immediatamente successiva»
La memoria degli eccidi delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata non può più essere distorta o relegata ai margini della storia nazionale. Riconoscere le responsabilità del regime comunista
jugoslavo e il ruolo di certa sinistra italiana nella copertura di questi crimini è un passo necessario per una memoria condivisa e per rendere giustizia a chi ha sofferto. Sul piano etico e morale, il
negazionismo e la minimizzazione di tali eventi rappresentano una grave ferita per il tessuto democratico del Paese.
Lo storico Giovanni Sabbatucci, a sua volta, ammonisce: «la storia non può essere usata come arma politica: la memoria delle foibe deve essere affrontata con rigore scientifico e senza
strumentalizzazioni ideologiche».
Solo attraverso una riflessione onesta e priva di pregiudizi possiamo evitare che simili tragedie si ripetano e restituire dignità a chi per troppo tempo è stato dimenticato
Per troppo tempo queste vicende sono state negate, ridimensionate o strumentalizzate, impedendo
una reale comprensione della tragedia vissuta da migliaia di italiani. Oggi, il riconoscimento storico e istituzionale di questi eventi è un passo imprescindibile verso una memoria condivisa, libera da
pregiudizi ideologici.
Come ha affermato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «La verità storica non si può cancellare, né si può piegare alle convenienze di parte. Ricordare le foibe significa rendere giustizia alle vittime e riaffermare i valori di libertà e democrazia su cui si fonda la nostra Nazione»
In conclusione, ci piace ricordare le parole che usò Giorgio Almirante, storico leader dell’MSI, per descrivere i sentimenti che dovrebbero stringere, in un unico afflato, tutti gli uomini liberi dal vincolo delle ideologie:
“Il silenzio sulle foibe è un’ingiustizia che offende la memoria delle vittime e impedisce una vera riconciliazione nazionale.
Le foibe sono una tragedia che non possiamo dimenticare. Dobbiamo onorare la memoria delle vittime e riconoscere le responsabilità storiche di
chi ha perpetrato questi crimini”.
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