Le urne sono chiuse, il verdetto elettorale inappellabile

Le urne sono chiuse, il verdetto elettorale inappellabile

Donald Trump è il 47° Presidente degli Stati Uniti d’America. Con oltre 300 grandi elettori contro i poco più che 200 di Kamala Harris, il tycoon riconquista la Casa Bianca dopo il primo mandato (2016-2020) e l’intermezzo democratico di Joe Biden (2020-2024).

Una vittoria che lo stesso Trump ha dichiarato storica e che i media di tutto il mondo hanno scongiurato fino all’ultimo inventandosi la panzana di un “testa a testa” che in realtà non è mai esistito

Uno scacco matto per il sistema mediatico progressista oltre che per il mondo di sinistra in generale che vede come fumo negli occhi The Donald.

Ma Come è stato possibile che Trump dopo ogni accusa, nonostante i processi, dopo essere stato isolato persino nel GOP e dopo una campagna di demonizzazione senza precedenti abbia riconquistato l’America?

L’analisi del voto consente di fare alcune prime valutazioni sugli elementi che hanno consentito a Trump di vincere in modo netto e incontestabile le elezioni presidenziali USA. Il sistema elettorale americano è un sistema complesso e potrà essere utile spendere due parole per descriverlo nei dettagli.

Il Sistema elettorale americano è a suffragio universale indiretto. Gli elettori non votano direttamente il candidato alla Presidenza, ma votano per i 538 grandi elettori del Collegio Elettorale, e questi, successivamente eleggono ufficialmente il Presidente

Per la vittoria finale il candidato presidenziale ha bisogno di totalizzare almeno 270 grandi elettori. Trump è riuscito a conquistarne più di 300 aggiudicandosi velocemente anche i cosiddetti Stati chiave come Georgia o Pennsylvania.

Ma Trump ha vinto anche nel voto popolare totalizzando 5 milioni di voti in più rispetto alla sua avversaria. Insomma una vittoria totale che non lascia margini di dubbio o incertezza.

Donald Trump non solo ha vinto, ma ha fatto molto meglio del 2020 quando perse le contestatissime elezioni contro Joe Biden

Se guardiamo al voto disaggregato, possiamo osservare dei flussi inediti che spiegano o concorrono a spiegare il successo del candidato repubblicano.

Trump, infatti, ha fatto passi da gigante anche in territori elettorali che avrebbero dovuto essere appannaggio della Harris e su cui questa aveva investito molto in termini di propaganda elettorale.

Donne, giovani e minoranze etniche hanno riservato una bruciante delusione alla candidata democratica, in buona parte scegliendo di dare fiducia a Donald Trump.

Un dato su tutti, il voto degli afroamericani

Nelle elezioni del 2020 Biden aveva ottenuto il 90% dei consensi dell’elettorato nero mentre la Harris ha conquistato solo l’80% . A nulla è servito e anzi si è rivelato un boomerang l’appello di Barack Obama che aveva detto che se l’elettorato nero avesse votato Trump, significava che era sessista e maschilista (probabilmente nemmeno lui poteva utilizzare il termine razzista!!).

Una forzatura semplicistica cui i diretti interessati hanno reagito accordando la preferenza ai repubblicani

Gli stessi latinos, considerati come un importante “ago della bilancia” hanno votato in massa Donald Trump. La comunità comunità musulmana ha lanciato un messaggio importante a favore del nuovo Presidente, nonostante che questi abbia una posizione ben più decisa del predecessore a favore dello Stato di Israele nella lotta contro le formazioni terroristiche islamiche.

Paradossalmente la Harris ha vinto in alcuni stati a preponderante maggioranza bianca, ribaltando la narrazione per cui il “suprematista Trump” avrebbe sbancato tra l’elettorato in questione

Anche fra le donne, si è verificata una spaccatura grosso modo a metà.
In conclusione, possiamo dire che Trump non solo ha consolidato clamorosamente il proprio consenso nell’elettorato di riferimento, ma ha pescato proprio tra gli elettori democratici che, in buona parte hanno voltato le spalle alla propria leadership che aveva sostenuto Kamala Harris.

Che cosa si può dedurre da questa brevissima sintesi

Primo: la debolezza del candidato
Kamala Harris era un candidato debole; lo era per la evidente continuità con Joe Biden di cui era Vice Presidente. Lo era perché nei quattro anni di amministrazione democratica non ha dato prova particolare di competenza o “savoire fair” politico, fallendo miseramente in uno dei dossier più importanti e sentiti: l’immigrazione.

Insomma, la sua caratura politica era ampiamente messa in discussione persino da quelle elites di partito che poi ne hanno propugnato la candidatura “ex officio” persino senza passare dalle primarie

Tutto questo ha generato anche una certa debolezza programmatica che, come vedremo, non è elemento da trascurare. Anzi!

Secondo: La difesa oltranzista delle minoranze a scapito di altri temi fondamentali

Kamala Harris ha puntato completamente sul suo essere espressione di categorie presuntamente oppresse. Il fatto di essere donna e nera non ha pagato poiché non è sufficiente per conquistare credibilità agli occhi dell’elettorato, nemmeno quello di riferimento.

Di conseguenza, insistere su temi come i cosiddetti diritti civili come “core business” della sua proposta elettorale non ha pagato. In realtà, l’elettore americano ha visto in quei temi non una “questione di civiltà” come le sinistre globali rivendicano oramai da anni, ma semplicemente come “marginal issues” difese da elites benestanti, ma lontani mille miglia dall’America reale.

Quell’America profonda che lamenta una eccessiva secolarizzazione della società in favore non della laicità, ma del mercato che sacrifica gli emarginati in una competizione spietata e spesso sleale.

Da questo punto di vista la presenza di J.D. Vance è stata rassicurante per quel tipo di elettorato spesso composto da redneck o Hillibilly

Insomma, la maggioranza degli elettori americani ha preferito risposte a questioni reali piuttosto che a battaglie propagandistiche di nicchia di cui hanno anche percepito l’intima contraddittorietà.

Insomma, propagandare ai quattro venti l’inclusività e poi dividere l’elettorato a seconda della minoranza di appartenenza per scagliarla contro la maggioranza è fortemente divisivo e anti-inclusivo e gli americani lo hanno evidentemente colto.

Terzo: la demonizzazione dell’avversario
L’attacco frontale a Donald Trump scagliato senza soluzione di continuità da quattro anni ne ha rafforzato la caratura elettorale, rivelando l’errore strategico dei democratici che pensavano che contro The Donald la partita sarebbe stata più facile rispetto ad altri candidati percepiti erroneamente più forti.

Insomma, una debacle totale delle elites del Partito Democratico che dovrebbe trarne più di una lezione, piuttosto che riversare tutta la responsabilità contro la candidata perdente

La propaganda agitata contro Trump definito un pericolo per la democrazia, un fascista, un razzista, un omofobo, un maschilista non ha fatto breccia nell’elettorato che non si è fatto spaventare dalla propaganda faziosa.

Quarto: debolezza programmatica
L’assenza totale di un serio programma elettorale della candidata Harris non è stato perdonato.

Poche idee e proposte, peraltro molto fumose in materia di lavoro, di economia, tutela dei redditi più bassi, competitività delle imprese, sicurezza pubblica

Su questi temi, anzi, la Harris spesso ha inseguito Trump adeguandosi alle proposte di quest’ultimo, rendendole più accettabili rispetto allo stile provocatorio di The Donald. Gli americani hanno preferito l’originale alla copia.

Detto questo, quale lezione trarre da quanto accaduto?

Che cosa dovrebbero imparare i democratici da questa batosta?

Probabilmente che l’elettore americano, prima di ogni altra cosa, si sente americano. Il voto non è dipeso dal colore della pelle o dall’orientamento sessuale o da altra categoria soggettiva.

È dipeso esclusivamente dalla credibilità programmatica dei candidati. Prima di essere nero, bianco, asiatico, gay, etero, uomo o donna, l’americano si sente orgogliosamente cittadino della più grande democrazia del mondo e in quanto tale (non come membro di maggioranze o minoranze) pretende risposte dall’Amministrazione del suo paese e una politica forte e pragmatica nella soluzione di problemi concreti.

Pretende che magari il sogno americano sia basato sulle qualità e i meriti personali, come già insegnava Martin Luther King

Insomma, il messaggio che traspare dovrebbe condurre le sinistre globali a un sano bagno di realismo da cui trarre lezione per adeguare la loro azione politica alla realtà e non a bandierine ideologiche difese a suon di slogan.

Che cosa dovrebbero imparare i repubblicani da questa vittoria?

La vittoria è stata oltre le aspettative è vero. Ma l’investimento dell’elettorato in Donald Trump non è una cambiale in bianco. Non solo il Presidente eletto dovrà mantenere gli impegni elettorali, ma dovrà farlo in modo sobrio. Gli americani – come spiega oggi Federico Rampini sul Corriere della Sera -si aspettano il ritorno alla normalità, sconvolta dagli eccessi radicali della sinistra. Si attendono il ritorno a quel tipo di cose che “fino all’epoca di Bill Clinton erano un patrimonio bipartisan, facevano parte di un bagaglio di valori condivisi sia a destra sia a sinistra”.

Di questo dovrà farsi garante Trump ma se questi – avverte Rampini – “eccede a sua volta nell’interpretazione del suo mandato, le elezioni di mid-term sono già dietro l’angolo”.

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