Li chiamavano onorevoli

onorevoli

Onorevoli – Vediamo la crisi in corso con altri occhi, sotto altra luce. Lasciamo le beghe e le trame, le parti in gioco e il gioco delle parti, Conte e RenziCiampolillo e Giggino a’ purpetta, e guardiamoci negli occhi. C’è una cosa che manca più di tutte in questi giorni, di questi tempi; non un valore ma un principio, la premessa a ciò che siamo e facciamo. Si riassume in una parola antica, fuori corso, ma necessaria per ben intraprendere ogni cammino, ogni patto, ogni professione: onore. Manca il senso dell’onore, che è decenza e decoro, amor di verità e rispetto di sé, degli altri e dei patti intercorsi.

Fa un po’ ridere che i politici in carriera siano chiamati ancora onorevoli, non solo per la prevalente meschinità dei loro comportamenti e per la bassa considerazione dei loro stessi mandanti, gli elettori; ma anche perché non si può usare una parola se la sua matrice è rimossa e rinnegata. Benché prepolitico, l’onore nasce con la politica, è un sentimento pubblico. Non a caso al tempo degli antichi romani la politica era definita “cursus honorum”.

Cancellato il delitto d’onore e il duello d’onore, restano alcuni usi residuali della parola: c’è l’onorario che è un’ipocrisia lessicale giacché indica qualcosa di venale come il compenso per una prestazione; ci sono le onoranze funebri, che spesso si esauriscono nel costoso business dei funerali; c’è la laurea “honoris causa”, assegnata per chiara fama; sarebbe opportuno istituire anche l’inverso, la revoca della laurea “dishonoris causa”, per indegnità. L’onore evoca sempre il suo rovescio, il disonore. C’è pure “l’onor del mento” che è il pizzo, come quello dei moschettieri. Ma è pelo superfluo.

Andiamo oltre la parola per capirne i contenuti. L’onore è qualcosa di più alto della reputazione e di meno pretenzioso della gloria. Non va confuso con l’orgoglio, che è egoismo presuntuoso. Non va ridotto all’espressione corrente perdere la faccia o metterci la faccia, soprattutto se la faccia è reversibile con il didietro. L’immagine o look ne è la versione vanesia, narcisista; riduce l’onore a “uso esterno”. L’onore va oltre la presentabilità, perché è fonte di affidabilità e di credibilità.

L’onore è il rispetto di sé tramite il rispetto degli altri, e viceversa. È bilaterale, reciproco e comunitario, personale e impersonale. È un’eredità immateriale da trasmettere ai figli e ai continuatori (traditio); un bell’esempio prima che un buono nome. Nell’onore, l’etica non può far meno dell’estetica e viceversa: senza etica si riduce a sola apparenza, bel gesto; senza estetica perde lo stile. L’onore presuppone la lealtà, la coerenza e la fedeltà alla parola data; il suo contrario è l’infamia del tradimento. Viviamo in un’epoca disonorevole, in cui si premia l’infamia, l’infedeltà, il trasformismo.

Per molti l’onore è una virtù degli antichi, finita con l’epoca cavalleresca; gli sopravvissero l’onore militare (onore delle armi), l’onore femminile (l’illibatezza e di converso l’onore dei loro mariti), l’onore mafioso e guappo (l’onorata società). La sua ultima comparsa nella storia e nella politica risale al fascismo, riferita in particolare ai vinti (la nobiltà della sconfitta) e alle culture arcaiche, aristocratiche e reazionarie (noblesse oblige). Ma c’è un genuino sentimento dell’onore che è popolare.

Uno dei più bei saggi sull’onore lo scrisse uno storico, Lucien Fevbre, che non apparteneva a nessuno di quei mondi. In Onore e patria (Donzelli, 1996, ma il saggio è di mezzo secolo prima) Fevbre vide l’onore come “il rifiuto di scendere a patti con ciò che è brutto, basso, volgare, interessato”; il rifiuto della forza, della pace a tutti i costi, della fortuna. Un sentimento comunitario ed emulativo, oggi diremmo contagioso. Anche Peter Berger sottolinea che l’onore sia “decisamente collettivistico”. Ma l’onore è irriducibile al collettivismo come all’individualismo eroico. È inscindibile l’intreccio tra amor proprio e sentire collettivo. L’onore configura pure un nesso inseparabile tra diritti e doveri. Prima dei diritti civili in alcune legislazioni si parlava di onori civili.

In Comunitari e liberal (Laterza, 1999) dedicai un capitolo all’etica dell’onore opposta all’etica della generosità. Descrissi la genesi di entrambi nella civiltà della vergogna, che risale al mondo greco-romano, opposta alla civiltà della colpa del mondo giudaico-cristiano. Le due categorie furono coniate da Eric Dodds ne I greci e l’irrazionale (Nuova Italia, 1959) a proposito del mondo antico: nelle civiltà della vergogna l’infamia peggiore era l’onta, il disonore; nella civiltà della colpa il male supremo era il peccato, la dannazione. L’una si rispecchia nell’Iliade, l’altra nella Bibbia. C’è una ricca letteratura eroica, cavalleresca e tradizionale sull’onore. Anche Simone Weil reputa l’onore “un bisogno vitale dell’anima”. Gli ultimi elogi dell’onore li scrissero Jean Cau Dominique Venner (l’onore frequenta il girone nero dei suicidi).

L’ultimo principio etico sbandierato da Tangentopoli fino ai grillini è l’onestà. L’onestà dovrebbe essere un prerequisito per chi ha un pubblico incarico; ma dopo l’invasione dei cretini e degli incapaci al grido di “onestà onestà” e i danni prodotti dall’ignoranza, l’incompetenza e l’inesperienza al potere, sappiamo che sono nocivi i fanatici di una sola virtù.

C’è qualcosa che precede l’onestà e si chiama onore. Onore è comportarsi in segreto, quando non ti vede nessuno, come se fossi in pubblico. Onore, dicevo, è dar conto agli dei. L’onore non è una condotta relativa, cioè in base al comportamento altrui; se gli altri ti deludono o ti derubano, non è un buon motivo per scendere al loro livello. Il senso dell’onore investe l’identità. L’onore è un principio più alto e più ampio dell’onestà.

Comunque c’è un modo sicuro per non perdere l’onore: non averlo mai avuto. Guardarsi in giro per avere conferma…

MV, La Verità

 

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