La pandemia avrebbe dovuto cambiare i nostri stili di vita ma soprattutto il nostro modo di approcciarci ad essa, in realtà non sembra essere cambiato granché. Che idea si è fatto?
In Occidente chi pensava che ci avrebbe resi “migliori” o più “responsabili” vaneggiava. Anche perché non si era trattato di un’improvvisa scoperta di senso civico, come ripetevano gli altoparlanti di regime: il cambiamento drastico delle abitudini, il rispetto delle restrizioni come mai era accaduto, nascevano da paura, istinto di conservazione ed effetto della campagna terroristica e intimidatoria del governo e della strisciante dittatura sanitaria che si è instaurata. D’altra parte non vedo perché il lockdown avrebbe dovuto migliorare lo stile di vita.
Per qualche mese abbiamo avuto la sensazione che i grandi sommovimenti sociali, politici e culturali del nostro tempo fossero stati messi in stand-by per via del nemico comune. Invece molte di queste placche ideologiche hanno semplicemente trovato un nuovo terreno di scontro: fede contro scienza, tecnica contro politica, individuo contro comunità. Chi sta vincendo?
Mi pare che ci sia stato un cortocircuito. Nel senso che la scienza ha dominato sulla fede e su ogni altro campo, si è fatta dominazione; ma dall’altra parte è apparsa incapace di dare risposte adeguate, inattendibile, divisa al suo interno, a volte funzionale più all’Apparato sanitario-farmaceutico e al suo vertiginoso business che realmente protesa alla ricerca e al bene comune.
La tecnica e la politica sono apparse complici nell’impotenza, nella incapacità di governare la situazione, anche se hanno cercato di mettere a frutto l’emergenza ai fini del consenso, della sospensione della democrazia, del voto, delle libertà più elementari. L’individuo ha perso ma la comunità non ha vinto: c’è stato piuttosto un rafforzamento dell’individualismo di massa, una società molecolare ma messa in fila… Solitari e allineati.
A pandemia non ancora terminata, un grimaldello di cronaca nera (l’omicidio di George Floyd) ha scatenato nuove ondate di “proteste antirazziste”, che dagli Stati Uniti hanno attraversato l’Oceano e trovato terreno fertile negli stessi ambienti che parlavano fino a pochi mesi fa di ritorno del fascismo. Com’è che il mondo progressista riesce a manipolare l’agenda in modo così efficace da proporre sempre le stesse battaglie (con forme diverse) finché non raggiunge l’obiettivo?
Ogni giorno nel mondo vengono uccisi in tanti per motivi religiosi, per repressioni dittatoriali o per mano della criminalità; ma l’opinione pubblica mondiale si muove come una scimmia ammaestrata solo se la vittima è un nero e il colpevole è un poliziotto. Meglio se americano dell’era Trump (non sarebbe accaduto con Obama, ma di fatto succedeva anche allora). Abbiamo assistito alle prove tecniche di una specie di religione nuova: pugni chiusi, auto bruciate, persone in ginocchio. tutto per buttare giù Trump alle prossime elezioni. Il problema è che l’egemonia dell’informazione e della mobilitazione ideologica è ancora saldamente nelle mani di un ceto progressista, pur minoritario a livello elettorale.
Antirazzismo, autorazzismo, cultura del privilegio: trova delle differenze?
Dietro l’antirazzismo c’è sempre più marcato un automatismo: ogni atto di solidarietà verso i neri sorge da un atto di disprezzo di sé. Da un’autoaccusa nei confronti del proprio mondo. Della propria civiltà. Della propria storia. L’antirazzismo va letto ormai a contrario, è un odio verso tutto ciò che è nostrano e un amore verso tutto ciò che è altro da noi. Una forma di masochismo culturale, di autodenigrazione militante, che porta solo alla fine di una civiltà e di una cultura. Non certo alla nascita di un mondo nuovo.
Cosa si può contrapporre a questi fenomeni? Pensa che possa esistere una contro-narrazione efficace?
Il problema, vorrei dire il dramma, della nostra epoca, è che esiste un sentire comune diffuso che è all’opposto rispetto a queste tendenze. Ma è un sentire che non diventa un pensare, un narrare, un rappresentare. Mancano gli strumenti culturali. Manca la maturazione di un pensiero antagonista. Manca un amore delle proprie radici, tradizioni, che sia anche espresso in testi, film, inchieste, linguaggio, cultura.
Mosca. Pechino. Teheran. Ankara. Non pensa che di fronte alle immagini di statue divelte e saccheggi diffusi nei palazzi del potere di queste capitali in molti se la stiano ridendo?
La furia suicida dell’Occidente è cominciata ormai dai primi anni Sessanta. Già in quegli anni c’era chi scriveva del Suicidio dell’Occidente (James Burnham); poi la cultura venuta dal ’68 ha radicalizzato questa tendenza e questo amore per tutto ciò che è altro da noi, opposto a noi. Di quelle capitali, comunque, quella che mi pare per noi più infettante, perché invasiva a ogni livello, mi pare quella cinese; il totalitarismo comunista combinato al mercato e al commercio, alla conquista dell’Africa, alle nuove tecnologie e all’emergenza sanitaria può produrre effetti letali. Tra l’annuncio di nuove ondate di sbarchi dall’Africa e la globalizzazione made in China, l’acquiescenza nei confronti delle sue repressioni, noi preferiamo martellare i nostri testicoli…
Intervista a cura Daniele Dell’Orco, Nazione futura
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