L’ora della decolonizzazione. In Africa è in atto un confronto decisivo tra imperialismo e autodeterminazione. Dialogo con Martufi, Rosati e Vasapollo
Di Aurelio Tarquini
Fonte: FarodiRoma www.farodiroma.it
“In Africa i movimenti di liberazione sono anti francesi e anti statunitensi, insomma antioccidentali. In particolare nella zona dei Grandi Laghi, che è ricchissima di risorse minerarie, ci si ribella al regime imperialista europeo”. Faro di Roma ha incontrato Luciano Vasapollo, economista e militante politico, Rita Martufi, coordinatrice del CESTES, il centro studi del sindacato USB, e Luigi Rosati, intellettuale e giornalista esperto di Africa, per analizzare con loro quanto sta accadendo in queste settimane nelle quali abbiamo assistito a diversi colpi di stato (in Mali, Ciad, Guinea, Burkina Faso, poi il Niger, infine il Gabon) e al riaccendersi di conflitti etnici e guerre civili (in Repubblica Democratica del Congo, Sudan e Sud Sudan).
Sottolinea Vasapollo che “si tratta in effetti di conflitti che hanno radici nel colonialismo: è uno scontro Nord-Sud non esattamente in senso geografico, ma tra colonizzatori e colonizzati, per interposti eserciti, e il polo imperialista europeo ha un ruolo importante, come stiamo vedendo nel conflitto Nato contro la Russia, mentre in Africa è la Francia che cerca di conservare un ruolo egemonico e spesso servile nei confronti degli Stati Uniti, ma allo stesso tempo svela anche la propria costruzione a carattere imperialista, con un ruolo importante ancora di super-eroismo e non è un caso, che le ribellioni le rivolte che avvengono in Africa hanno un carattere in primis anti francese e poi anti-occidentale, contro il Nord in generale”.
“Il processo di decolonizzazione – aggiunge Martufi, cofondatrice con Vasapollo del capitolo italiano della REDH – ha assunto il volto di una competizione tra poli perché l’Unione Europea, spesso, come dicevamo, è servile agli interessi degli Stati Uniti però poi persegue anche una propria via, un proprio disegno geostrategico, geopolitico e geoeconomico, ed è per questo che parliamo di conflitto inter-imperialistico, visto il peso che vanno assumendo sempre di più i BRICS non solo a livello numerico, cioè a livello di popolazione e di PIL, ma insieme in termini di risorse energetiche e di materie prime in generale”.
“Questo allargamento – aggiunge Rosati – ha portato nei BRICS sei nuovi membri: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, ma soprattutto c’è una serie molto grande di altri paesi che chiedono l’entrata nei Brics. Diciamo che questo BRICS plus, questo allargamento rappresenta in un certo senso l’orizzonte della continuità, io direi, con i non allineati, come appunto venivano definiti i paesi che non erano nell’orbita di Washington o di Mosca, e anche oggi diverse aree del Sud presentano una concreta alternativa al modello unipolare. Questo è sempre di più il caso dell’Africa, come abbiamo visto negli ultimi tempi”.
“Per capire lo sviluppo di questa lotta – riprende Vasapollo – dobbiamo partire, come abbiamo fatto anche negli articoli precedenti, proprio dalle origini, cioè dall’imperialismo in Europa, che è iniziato con la caratteristica dell’espansione economica e poi ha avuto una evoluzione, conseguente al dominio del capitale, che è arrivata dalle conquiste vere e proprie politiche e geopolitiche, ed economiche, di dominio coloniale per poi arrivare ovviamente a quello che è stato in primis l’accaparramento della forza lavoro, cioè le navi degli schiavi che partivano da dall’Africa, per approdare appunto nelle Americhe e particolarmente negli Stati Uniti. E poi una subordinazione, con guerre anche non convenzionali, con i conflitti militari ai fini del controllo delle risorse minerarie e lo sfruttamento coloniale che nel tempo è diventato un vero e proprio concetto portante di quella che viene chiamata la teoria dei commerci con ovviamente i vantaggi competitivi, perché viste le caratteristiche materiali dello sfruttamento ha fatto sì che nell’Occidente non prevalesse l’analisi di tutto questo processo che porta sicuramente alla costruzione, anche imperialistica, del polo europeo”.
“Anche in Africa – tiene a sottolineare Rosati – è determinante questa attualità dello scontro dell’unipolarismo contro il pluripolarismo, che mette ancora una volta in evidenza questa enorme dicotomia, tra paesi colonizzati e potere imperiale dei paesi a capitalismo maturo, cioè l’imperialismo in senso leninista, come fase suprema dello sviluppo capitalistico: a partire da questo abbiamo una presenza enormemente significativa di paesi europei in Africa, con la caratteristica colonialista: parliamo in particolare della Francia parliamo del Belgio, parliamo dell’Inghilterra e anche dell’avventura un po’ stracciona del colonialismo italiano. Paesi europei che hanno orientato gli interessi alla ricerca della dell’appropriazione delle materie prime per rafforzare il proprio mondo e far sì che possa emergere una modalità di controllo, non solo sul petrolio ma sui metalli preziosi, che anche oggi molti paesi dell’Africa. Sono influenzati, controllati, diciamo dall’egemonia francofona, dove il vecchio modello francofono che non è soltanto l’influenza della lingua francese, ma dei modelli culturali, dei modelli economici, dei modelli appunto di dominio e quindi dalla dipendenza monetaria e finanziaria”.
“Pensate al ruolo del Franco francese in chiave africana, cioè del Franco africano, la cui presenza – afferma Vasapollo, porta ovviamente a continue guerre civili economiche apparentemente anche con la veste di guerre di razza o di guerre tribali di guerre religiose a traffici illegali e corruzione appoggio alle forme più estreme del terrorismo voluto dalle potenze occidentali e questo fa sì che le popolazioni africane non sviluppino il proprio modello di autodeterminazione economica e di autodeterminazione politica, l’Africa dei Grandi Laghi. E parliamo della Repubblica Democratica del Congo, di Ruanda e Burundi cioè di una parte sostanziale, importantissima, di una fetta enorme delle risorse a livello mondiale: non solo il petrolio ma il cobalto, il coltan, i diamanti, lo zinco, l’uranio, lo stagno, l’argento, il carbone e il cadmio ed ovviamente il rame. Quindi tutte risorse importantissime per lo sviluppo dell’Africa e per il commercio internazionale”.
Osserva Rita Martufi che “la Repubblica Democratica del Congo è un paese ad altissima conflittualità anche di carattere tribale, ma ricordiamoci anche la novità rappresentata della presenza di un vero e proprio movimento di liberazione a forte connotato antimperialista e anticolonialista, per l’autodeterminazione che è M 23, il movimento Marzo 23.
Secondo la coordinatrice del CESTES, “dopo il riconoscimento dell’indipendenza del Congo dal Belgio è iniziata una guerra per accaparrarsi quelle risorse cui si aggiungono i rischi legati ovviamente alle sommosse, ai traffici illegali, ai cambiamenti dovuti alla violenza, ai cambiamenti anche all’interno dell’esercito, dovuti alla violenza dei militari in tutte le altre zone. La RDC ha oltre 80 milioni di abitanti e 1100 metalli preziosi nel commercio internazionale: è un paese che ha grandissime potenzialità e che insieme al Venezuela forse detiene nel sottosuolo la maggior parte delle risorse minerarie e che pur avendo questi requisiti per un proprio sviluppo dell’economia e invece è divenuto un vero e proprio paese ostaggio di quello che è l’arricchimento coloniale”.
Interviene Luigi Rosati, per il quale “proprio su questo si può sviluppare un ragionamento per meglio comprendere quella che è la determinazione del Congo: tra le risorse strategiche della Repubblica Democratica del Congo va menzionato il coltan (una miscela complessa di columbite Nb₂O₆ e tantalite Ta₂O₆, due minerali della classe degli ossidi che si trovano molto raramente puri) che è fondamentale per la produzione dei dispositivi telematici dell’industria elettronica: il coltan è una polvere metallica che resiste al calore quindi sopporta elevate cariche elettriche e con l’avvento della rivoluzione tecnologica e telematica-informatica è aumentato il prezzo di questo composto, mentre gli interessi degli acquirenti internazionali sono quelli di effettuare continue estrazioni, anche clandestine ed illegali per poter portar via una risorsa dell’Africa dei Grandi Laghi, che è diventata decisiva per l’Occidente come per l’Asia”.
Ricorda Rosati che “RDC è il più grande produttore di tantalio e sappiamo quant’è importante questa risorsa e le esportazioni che passano per il Burundi, dirette anche in Australia, sono molto aumentate dal 2010 e hanno fatto sì che la regione dei Grandi Laghi copra da sola la meta della produzione di vantaggio anche per i prossimi 20 o 30 anni, nei quali questa regione entrerè sempre di più all’interno del commercio internazionale”.
Commenta Vasapollo: “rischiavamo di tornare a quando tutti gli Stati europei volsero la loro brama di conquista verso il continente africano ma i BRICS da una parte e le rivoluzioni africane dall’altra spingono in un senso diverso. Il neocolonialismo e l’imperialismo sono anche oggi, senza dubbio, una costruzione economica incentrata su rapporti violenti, che si basa sulla conquista armata e sulla negazione dei diritti e dell’autodeterminazione delle popolazioni”. E attraverso le fake news per esempio sui militari del Niger o su M23 si torna all’annoso ma sempre attuale tentativo di giustificare le ingiustizie perpetrate sui popoli facendo leva sui temi delle azioni umanitarie, religiose e della filantropia. È evidente però come in realtà il sistema si basasse sulla «lucida e sistematica privazione dei diritti delle popolazioni assoggettate”.
“Quando si parla di decolonizzazione – conclude l’economista cui fa capo alla Sapienza la Scuola di Economia Antropologica – non dobbiamo dimenticare che questo processo si è realizzato solo a causa del processo di colonizzazione del quale ancora oggi si hanno le drammatiche conseguenze lasciate sul continente. La richiesta di indipendenza era quindi funzionale ad opporsi alla dominazione degli imperi, che avveniva con violenza, con la cancellazione della cultura locale, e che ha portato alla creazione di società ibride che hanno incorporato degli elementi tipici delle culture dominanti”. Una storia che si ripete oggi ma sulla quale possiamo intervenire.