Marco Rizzo:Anche in FRANCIA, come da noi, la precarizzazione del lavoro serve ad allargare la sfera del sottoproletariato. Ma è chiaro che quello che sta succedendo non si limita solo a questo.
Secondo il modello orwelliano che caratterizza l’odierna cultura occidentale, i problemi si fanno scomparire cambiando o cancellando i concetti per identificarli.
Davanti agli scontri ricorrenti di carattere economico-culturale è interessante notare che la dinamica sociale è esattamente la stessa:
L’immigrazione ha una funzione economica nel breve periodo in quanto fornisce al sistema produttivo manodopera adulta a basso costo; per questo motivo essa è sostenuta con argomenti fioriti, proclami di multiculturalismo, glorificazioni del melting pot e altre innumerevoli dabbenaggini da rotocalco.
Idealmente questa funzione economica dello “sradicato” la si vorrebbe dosata sulla base dei bisogni economici minuto per minuto, come nei grafici della domanda e dell’offerta: quando servono dovrebbero esserci, quando non servono dovrebbero magicamente sparire; purtroppo questi soggetti, oltre ad essere utili lavoranti a buon prezzo sono anche ingombranti esseri umani, e qui iniziano i problemi.
Tutte le chiacchiere sull’integrazione di cui si riempie la bocca l’intellighentsia occidentale radical chic e fucsia sono pura fuffa benpensante, ad uso della plebe: in verità le società di impianto liberista e capitalista sono sistemi che generano la dis-integrazione, la divisione, l’esclusione, la compartimentazione competitiva.
Intendiamoci, lo fanno verso chiunque, nel proverbiale spirito liberale dell’eguaglianza etnica e culturale, dove l’unica differenza che davvero rileva è quella sull’estratto conto.
Ma naturalmente i nuovi arrivati alla ricerca di un impiego purchessia tendono a concentrarsi sui gradini più bassi, e il meccanismo ordinario del sistema è: i soldi producono soldi, la miseria altra miseria. Dunque l’esclusione sociale tende a permanere e consolidarsi intergenerazionalmente.
Ed è qui che la cultura ritorna in gioco. La cultura non cavalca su alati destrieri al di sopra della società e dell’economia, ma vi si intreccia sempre e necessariamente.
Nel modello occidentale del totalitarismo globalista e liberista la cultura è ancella della società che a sua volta è ancella dell’economia. Per quanto si catechizzino gli insegnanti affinché a loro volta catechizzino il sottoproletariato urbano perché “si senta integrato”, in verità l’identità culturale dei quartieri popolari si autonomizza su linee di appartenenza di ceto, che niente hanno a che fare con la “cultura ufficiale”.
L’identità culturale è essenziale “quando la tua vita dipende dalla possibilità di fidarti di altri (altri che non puoi pagare)”.
Perciò nelle periferie degradate dei grandi centri urbani si costituiscono subculture identitarie ben più solide di quanto si possa trovare nei quartieri bene. Queste subculture identitarie hanno poco a che fare con le eventuali autentiche origini etniche o religiose, ma risultano comunque distintive.
Gli afroamericani hanno creato la loro identità subculturale negli USA così come i maghrebini lo hanno fatto in Francia: non come effettiva eredità di una cultura diversa, ma come creazione funzionale a sopravvivere nella nazione in cui risiedevano senza appartenervi. Se si guarda alla biografia degli attentatori islamisti in Francia di qualche anno fa, si nota come fossero “islamici di ritorno”, nati in Francia, apparentemente “integrati” come laici, salvo scoprire, come seconda generazione, che non esiste in Francia (come ovunque in occidente) alcuna integrazione che crei appartenenza.
In occidente neppure i ceti apicali, che pure sarebbero nelle condizioni di sottrarsi in buona parte al gioco della dis-integrazione competitiva, possiedono più alcuna appartenenza.
Tirando le fila di questo quadro, vediamo come il vicolo cieco strutturale in cui si sono infilate le società occidentali non è risolvibile né guardando unilateralmente alla “cultura” né guardando unilateralmente al “reddito”.
Da un lato i meccanismi economici di efficientamento della redditività a breve termine spingono alla liquefazione di ogni cultura e di ogni appartenenza: al netto delle chiacchiere sul multiculturalismo, si lavora per un sistema in cui hanno legittimo posto solo individui autoreferenziali, intercambiabili, senza cultura, senza appartenenze. Per questo la “mobilità”, interna o internazionale, è santificata.
Dall’altro lato i “perdenti” del sistema hanno un bisogno vitale di crearsi una qualche identità culturale che definisca un’appartenenza del gruppo su cui poter contare nelle difficoltà. E questo avviene attraverso la creazione di subculture difensive altamente problematiche, subculture in conflitto con le pretese di legalità, ostili alla cultura ufficiale del paese in cui vivono (cultura peraltro spesso in stato di abbandono presso gli stessi autoctoni).
In questo quadro non ci sono eroi, ma solo diverse forme di degrado !!!
Le “élite” nazionali hanno tradito tutto ciò che potevano tradire, diventando una patetica melassa cosmopolita senza appartenenze, senza lealtà, senza una cultura propria, pronta a lasciare qualsiasi barca su cui stiano navigando se dovesse dare segni di instabilità.
Il popolo dei lavoratori autoctoni è stato sedotto con le perline del mercato, o ricattato quando non si riusciva a sedurlo: l’esito comunque è stato la disintegrazione, da cui cercano di difendersi aggrappandosi alle rimanenze di tradizioni, credenze, costumi sempre più effimeri.
I più giovani o i più sprovveduti trangugiano le pillole ideologiche degli influencer a libro paga delle élite, aderendo alle campagne emancipatorie del giorno.
Quelli con una memoria un po’ più lunga si arroccano e finiscono per identificare nei disperati non autoctoni gli “invasori culturali” che hanno fatto a pezzi il senso del mondo che fu.
Il sottoproletariato non autoctono, che anche se con cittadinanza nazionale, non sente alcuna appartenenza, si costruisce fortificazioni di fortuna nei propri quartieri dormitorio, sviluppando subculture illegali o parassitarie, usando reminiscenze di culture e tradizioni come mattoni funzionali alla propria sopravvivenza.
Problematiche di cui ci accorgiamo solo quando “prendono fuoco i cassonetti”. In ultimo un dato politico. L’uccisione del giovane immigrato ed i conseguenti grandi disordini stanno scatenando una reazione molto dura, di questo passo vedremo l’esercito francese nelle strade.
Questo dopo mesi di possenti lotte dei lavoratori francesi, imperniate ed organizzate dalla lotta contro l’aumento dell’età pensionabile .
Il contesto di guerra, con la Francia impegnata in prima persona, vede non solo l’Ucraina, ma anche l’Africa dove lo “zampino” neocoloniale francese è ben presente…
Le lotte sociali con reali possibilità di cambiamento non hanno mai avuto a che fare con rivolte fini a sè stesse, con saccheggi e devastazioni.
Gli avvenimenti in Francia, ci impongono di stare allerta, la stessa vicenda della cosiddetta pandemia ci hanno raccontato di una torsione autoritaria nelle società occidentali, la guerra è un ulteriore acceleratore in questa direzione.
Più che applaudire a ciò che sta succedendo in Francia, è bene concentrarsi su come imparare la lezione in Italia.
Ciò che sta succedendo Oltralpe in questi giorni potrebbe esser in opposizione a ciò che è successo in Francia negli ultimi mesi.
Un reale processo di cambiamento ha bisogno di un progetto, una teoria, una modalità organizzativa che l’attuale jacquerie stenta a delineare.
Concludo sorridendo amaramente: se quello che accade in Francia fosse successo in Russia, i cosiddetti “mezzi di informazione” che direbbero…?
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