Giorgia Meloni, qual è il suo primo ricordo?
«Ho tre anni e sto annegando. L’acqua si chiude sopra di me. Mio padre ci aveva lasciato in barca con una tata che non sapeva nuotare. Da allora una delle mie paure più grandi è morire affogata. Per questo ho fatto nuoto, agonismo, immersioni».
Mi pare un buon motivo per evitare nuoto e immersioni.
«Al contrario. Io sono piena di paure; per questo le impatto. Mi impongo di vincerle. Ogni volta che faccio sub mi viene un attacco di panico; e l’unico rimedio è mettere la testa sott’acqua. La sola paura che non ho impattato è quella degli scarafaggi. Li vedo e scappo».
Nel suo libro lei racconta che sua madre stava per abortire, e lei non sarebbe dovuta nascere.
«È vero. C’era già mia sorella Arianna. La storia con papà era finita. Tutti avevano detto a mamma di non tenermi, e lei era andata in clinica, digiuna, per fare le analisi prima dell’intervento. Sulla soglia ha esitato. Poi si è detta: io questa creatura la voglio. Così ha attraversato la strada, è entrata al bar, ha ordinato cappuccino e cornetto. Mi sono salvata così».
Però è cresciuta senza padre.
«Un padre che non c’è, che si dissolve è un padre che non ti vuole. Che ti rifiuta. È forse una ferita più profonda di un padre che muore».
Però con sua sorella andavate a trovarlo alle Canarie, dove si era trasferito.
«Avevo 11 anni. Lui sparì in barca e ci lasciò con la sua compagna, che non era entusiasta. Decisi che non l’avrei rivisto mai più. Quando compii 13 anni mi mandò un telegramma: “Buon compleanno, Franco”. Non “papà”; Franco. Mi dissi che avevo fatto la scelta giusta».
Non l’ha più rivisto?
«No. Mia sorella sì; io non ho voluto. Quando è morto, non ho provato nulla. Né dolore, né gioia; che sarebbe comunque stata un’emozione. Non lo odiavo, e non lo amavo».
Com’è possibile?
«A lungo ho creduto che il fatto di non avere un padre non mi avesse cambiata. Solo di recente ho capito che non è così. Non avere un padre è come un buco nero, un pozzo chiuso. E io quel pozzo non potevo permettermi di riaprirlo».
Qual è la sua paura più grande?
«Deludere. Gli altri e me stessa. Per questo lavoro e studio come una pazza».
Pensavo il fuoco
«Perché a tre anni ho dato fuoco alla casa? Fu anche colpa di mia sorella però. Avevamo smontato la casa di Barbie per farne un’astronave. Non contente, volevamo dare una festa, solo per noi due. Così abbiamo acceso una candela, in vista della serata, poi abbiamo chiuso la porta e siamo andate a vedere i cartoni. Presero fuoco i pupazzetti e i pasticcini. La mamma sentì un rumore e aprì la porta: c’erano le fiamme al soffitto».
Doveste cambiare casa e quartiere.
«Andammo ad abitare vicino ai nonni. Da loro io e mia sorella passavamo molto tempo. Era una casa di 38 metri quadrati. Nel corridoio c’era un mobile-letto dove Arianna e io ci coricavamo insieme: “Una de capo e una de piedi”, diceva la nonna. Insomma, dormivo con i piedi di mia sorella in faccia. Per campare la mamma ha fatto mille lavori, anche scrivere romanzi rosa con vari pseudonimi, tra cui Josie Bell: ne ha pubblicati 144».
Lei da piccola era chiusa.
«Molto. La Russa mi dice di continuo: “Devi sorridere di più, sei sempre incazzata” (la Meloni si produce in una discreta imitazione di La Russa). Gli ho fatto vedere una foto dell’asilo: avevo un muso lungo così».
Ed era grassa.
«Parecchio. Ho combattuto con le diete tutta la vita. Il ricordo più brutto è al mare, ancora adesso vado al mare a Coccia di Morto, la spiaggia del film Come un gatto in tangenziale . Ci sono dei ragazzi che giocano a pallavolo, io chiedo di unirmi a loro, e quelli mi fanno: “A’ cicciona, te non puoi gioca’”. Avrei voluto morire».
Così quando poi l’ha criticata Asia Argento
«Per la “schiena lardosa”? Non me n’è fregato nulla. Ero appena diventata mamma».
Lei scrive di essere contro le quote rosa: «Sono una donna, non voglio essere trattata come un panda».
«Sono per il merito. Non capisco le donne del Pd, tutte felici perché il capo ha deciso che due di loro potevano fare le capogruppo. Tu non devi andare al potere perché l’ha stabilito un uomo, ma perché sei la migliore. In Fratelli d’Italia è andata così».
Esiste la solidarietà femminile?
«No. Al contrario: le donne tendono a competere tra loro, come se giocassero un campionato di serie B. Però esiste la solidarietà tra mamme. Ho un ricordo molto dolce di Laura Boldrini, da cui mi separa tutto, che mi accarezza la pancia. Roberta Pinotti mi mandò un paio di scarpine da neonata. Sono gesti che restano».
Lei era amica di Roberto Speranza, ma ha presentato una mozione di sfiducia contro di lui.
«Ci è rimasto malissimo. Ma sulle chiusure ha sbagliato tutto. Ho un buon rapporto con molti avversari; però non li risparmio. Se fossi io al suo posto, Roberto non mi avrebbe risparmiata. E avrebbe avuto ragione».
Si iscrisse al Fronte della Gioventù da ragazzina.
«Telefonai alla sede del Msi in via della Scrofa – qui dove siamo ora, nella stanza di Almirante – per chiedere dove fosse la sezione più vicina a casa. Andai. Mi aprì un ragazzo che si chiamava Alessandro ma si faceva chiamare Marta».
Marta?
«Era il nome di battaglia. Nessuno chiamava l’altro con il suo vero nome. Un retaggio degli anni 70. Il capo lo chiamavano Peo: aveva i capelli lunghi, il chiodo e la spilletta dei Ramones; pensavo di essere finita in un centro sociale. Capitava di telefonare a casa e chiedere di Pinotto e Nocciolino, con enorme imbarazzo delle madri».
Poi la mitica sezione del Msi di Colle Oppio.
«Passata indenne attraverso i sindaci comunisti, rispettata da Rutelli e Veltroni, e chiusa dalla Raggi. Per odio, furia, e totale mancanza di cultura politica».
La festa di Atreju.
«Chi la chiamava “Atreggiu”, chi “Atroja”, chi pensava fosse il nome di un pastore sardo, è il protagonista della Storia infinita di Ende».
Gli scherzi ai leader ospiti.
«Ci cascavano tutti. Berlusconi fu indotto a maledire Pai Mei, “dittatore comunista del Laos”, in realtà un personaggio di Kill Bill. Veltroni rispose sul degrado dell’immaginaria borgata Pinarelli. Fini si impegnò a battersi per i kaziri, minoranza cristiana oppressa in Turkmenistan».
Avete fatto solo scherzi?
«Il ricordo più emozionante è quando Orbán disse che la canzone più bella sulla rivolta d’Ungheria l’aveva scritta un italiano: Pierfrancesco Pingitore».
Quello del Bagaglino?
«Lui. Tutta la platea si alzò a cantare “Avanti ragazzi di Buda”. Se ci ripenso mi commuovo ancora».
È sicura che il futuro appartenga a quelli come Orbán? Non è meglio dialogare con Merkel?
«Noi non siamo contro l’Europa. Siamo per un’Europa confederale, che decide le grandi cose, e sulle altre lascia libertà agli Stati. Oggi accade il contrario: l’Europa ci dice che possiamo mangiare i vermi; e sulla pandemia si va in ordine sparso».
Perché non avete dato una mano a Draghi, invece di opporvi per sfruttare una rendita di posizione?
«Io sto dando una mano a Draghi. A un governo l’opposizione serve».
Vi sentite?
«A volte sì. Abbiamo un buon rapporto. Su Erdogan e sull’estradizione dei terroristi mi è piaciuto».
È il suo candidato al Quirinale?
«Avrebbe il vantaggio che poi si va a votare. Ma penso anche ad altri nomi. Che non intendo bruciare».
Di Berlusconi racconta che, quando lei lasciò il Pdl, lui le chiese: «Che cosa vuoi?». Come una persona convinta che tutto e tutti abbiano un prezzo.
«Non credo che Berlusconi mi abbia mai davvero capita. E non so se volesse trattenermi, o mettermi alla prova, o liberarsi di un po’ di ex An».
Fini non esce male dal libro.
«Mi ha voluta vicepresidente della Camera a 29 anni e ministro a 31. Io avevo con lui un buon rapporto, ma ci sono voluti dieci anni per ricostruire dopo quello che ha fatto».
Perché l’ha fatto?
«Non l’ho mai capito. A volte penso che forse non riusciva più a reggere questa vita. Una notte venne a una cena che avevamo organizzato da mesi: era nero. Non un sorriso, non una stretta di mano. Ci rimasi malissimo. Ma adesso capisco che certe volte, dopo quattro pranzi, due comizi, tre interventi tv, sei talmente stanco che hai voglia soltanto di dormire».
Bossi?
«Non ci siamo mai piaciuti particolarmente. Mi chiamava la Romanina».
Come sono davvero i suoi rapporti con Salvini?
«Altalenanti. Il nostro non è mai stato un rapporto che andasse oltre la politica. Ma in certi periodi ci parliamo spesso, e ci mandiamo WhatsApp per ridere di chi vuole farci litigare; in altri, ci sentiamo meno. Adesso è uno di questi periodi».
Renzi?
«Ormai è un uomo d’affari. Enorme delusione. Anche generazionale».
Qual è il suo obiettivo?
«Andare al governo».
Non crede che le serva una squadra?
«Sì. Sono molto soddisfatta dei miei venti senatori e trenta deputati: hanno fatto tutti la gavetta; sono pochi, e riescono a tenere in scacco il Parlamento. Ma dobbiamo dialogare, attrarre energie, aprirci in vari campi e gente che ne sa più di noi».
In tutta Europa la destra di governo non ha problemi con i diritti civili e le minoranze. Perché in Italia sì?
«Non li abbiamo neanche qui. Io sono la persona meno omofoba che esista. Chi mi dà dell’omofoba, come l’altro giorno Fratoianni, lo fa per non discutere nel merito. Sono contraria alla gerarchia nella discriminazione; perché le grandi discriminate saranno le donne».
Perché?
«Pensi ad esempio a quando alle Olimpiadi i transgender potranno partecipare alle gare femminili. Lo sa che molte femministe si oppongono al ddl Zan?».
Nel libro racconta come ha conosciuto Andrea, il padre di sua figlia.
«Lo vidi in uno studio Mediaset, con le cuffie, bello come il sole. Ma non mi filò. Mi prese pure in giro. Stavo mangiando una banana durante la pubblicità, e lui venne a prendermi la buccia: “Ci manca solo di far vedere la banana”. Poi ci siamo rivisti. Ho chiesto il suo numero a Giovanna, la mia portavoce, e gli ho mandato un sms innocente. Lui non si è fatto sfuggire l’occasione».
Perché non vi sposate?
«Di solito non sono cose che chiedono le donne…».
L’ultimo capitolo è dedicato alla sua bambina.
«Dopo la sua nascita ho fatto un esame sulla fertilità: mi hanno detto che difficilmente avrei avuto altri figli, e che la situazione era già così quando è arrivata lei, contro ogni possibilità. Ginevra è un dono. Spero che un giorno sarà orgogliosa di me, e mi perdonerà per tutto il tempo che non le ho dedicato».
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”
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