Midterm elections 2018: cosa succede ora in USA. Una riflessione sugli errori di Democratici e Repubblicani

United States Capitol

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Le Midterm elections 2018 consegnano un Congresso spaccato a metà: la Camera ai Democratici ed il Senato saldamente in mano ai Repubblicani. Niente che non fosse stato già previsto nelle scorse ore. Ora la spaccatura inciderà sull’agenda del Presidente nei prossimi due anni di mandato, con conseguenze importanti in politica interna: dall’immigrazione all’assistenza sanitaria, dall’economia al controllo delle armi Trump dovrà mitigare i toni e spostarsi più al centro se vorrà spuntarla mentre i due partiti, entrambi in sofferenza, saranno chiamati a riflettere seriamente sulla propria identità.

Cosa sono le Midterm elections 

Partiamo dai fondamentali. Con le Midterm elections si eleggono i membri di una parte del Congresso (435 per la Camera ed un terzo dei 100 membri del Senato, 35 quest’anno) oltre che le assemblee elettive ed i governatori di 36 dei 50 Stati e di 3 territori. Poichè si ripetono ogni due anni, proprio a metà mandato del Presidente in carica, costituiscono un banco di prova importante per le scelte politiche presidenziali ed il loro risultato consente di stipulare previsioni più chiare in ordine ai prossimi due anni di mandato. Non è un caso che ogni volta vengano presentate all’opinione pubblica mondiale alla stregua di un vero e proprio referendum sulla politica del Presidente.

La circostanza che si è verificata col voto del 6 novembre ovvero la spaccatura del Congresso dopo i primi due anni di mandato è comunque una condizione frequente nella storia politica americana: prima di Trump era già successo a Obama, Clinton, Bush e più indietro a Harry Truman e Ronald Reagan. É quindi qualcosa di fisiologico che però negli anni ha incrementato il ricorso dei presidenti all’atto esecutivo, facendo perdere al Congresso il proprio ruolo d’indirizzo decisionale su questioni cruciali per il Paese. 

Come si vota alle Midterm elections

Per le elezioni di Midterm il paese viene diviso in collegi disegnati in sede politica dall’Assemblea legislativa di ciascuno Stato (motivo per il quale conquistare uno Stato è fondamentale: per i non avvezzi consiglio di dare un’occhiata al “gerrymandering“, spiegato abbastanza bene in questo articolo). Si vota col maggioritario puro (ad eccezione della Louisiana dove sussiste il doppio turno alla francese). Ogni Stato elegge due senatori ed un numero di deputati proporzionale alla popolazione dello stato stesso. Risulta eletto il candidato che ha ottenuto anche un solo voto in più rispetto allo sfidante.

Fino al voto di ieri i Repubblicani avevano un vantaggio di 235 seggi alla Camera contro i 193 dei Democratici, ai quali si aggiungevano 7 seggi vacanti. Al Senato la maggioranza del Presidente Trump era invece più risicata: 51 seggi a 49 di cui 47 per i Democratici e due agli Indipendenti.

Con una maggioranza fissata a 218 deputati per la Camera bassa, i Democratici dovevano quindi conquistare almeno altri 25 seggi senza perderne alcuno per poter ribaltare la situazione. Obiettivo che sembra stato raggiunto, nonostante le urne non siano ancora state chiuse. Il Senato è invece rimasto in mano ai Repubblicani che, risultati in fase di definizione, sembrano avviarsi ad accentuarne il controllo. Per sapere concretamente quanti seggi hanno ottenuto i due partiti bisognerà tuttavia aspettare ancora qualche ora, tanto che le maggiori reti americane non hanno ancora fornito risultati definitivi.

Cosa accade ora: una lettura sugli scenari

Gioisce ma a metà il Presidente Trump, che ora dovrà confrontarsi con l’ostruzionismo di uno dei due rami del Parlamento per far passare fluide le sue politiche. Una Camera a lui ostile potrebbe creargli non pochi grattacapi sulle scelte di politica interna sulla quale questo ramo detiene maggiori competenze: a rischio la cancellazione dell’Obamacare e la stretta all’immigrazione sulla quale Trump ha costruito gran parte della sua recente propaganda elettorale. A rischio anche riforme importanti in ambito economico e fiscale, tra i più brillanti risultati della Presidenza Trump.

Niente “onda blu” invece per il Partito Democratico: ha superato lo scoglio della maggioranza alla Camera riconquistando molti distretti considerati fondamentali ma ne ha persi altrettanti (Indiana e North Dakota piuttosto che Florida e Missouri), registrando sconfitte che pesano in un paese dove l’immagine conta spesso più della sostanza. Tanto più che il Senato resta saldamente nelle mani del Presidente e quindi The Donald avrà ancora mano libera sulla politica estera e sulle nomine chiave, come quelle dei giudici della Corte Suprema. Svanito anche il sogno dell’impeachment ventilato da alcuni media nei giorni scorsi, non solo perchè avrebbe quale principale effetto quello di veder rafforzata l’immagine di un presidente-vittima e pertanto tra i democratici si contano numerosi scettici ma – soprattutto – perchè se da un lato la Camera può varare l’iter a maggioranza semplice, dall’altro per confermare la condanna occorrerebbero i due terzi del Senato.

La debolezza dei due partiti: la mancanza di leadership per i Dem e la ricerca dell’identità perduta per i Repubblicani. E Trump fa flop in comunicazione.

Confuso e poco organizzato, il partito Democratico è arrivato a questo importante turno elettorale senza una vera e propria organizzazione nè una leadership in grado di delineare scenari alternativi per il 2020. Buona la strategia di schierare una folta truppa di giovani candidati grintosi e coinvolgenti – come la paladina del Welfare State Alexandra Ocasio-Cortez, eletta nel collegio di New York a soli 29 anni o Beto O’Rourke, uomo-copertina dei democratici che ha tentato senza brindisi finale la mission impossible di battere Ted Cruz in Texas – ma ancora troppo poco per insediare seriamente il partito del Presidente, che mai come in queste elezioni ha dimostrato di sapersi compattare attorno alla sua figura. Internamente ai Dem però l’ala centrista torna a respirare dopo la sconfitta della Clinton: negli ultimi due anni si era rafforzata l’ala progressista del partito, quella facente riferimento a Bernie Sanders. Se i Repubblicani avessero vinto anche alla Camera il vecchio partito democratico come lo conoscevamo probabilmente sarebbe andato a sparire, sepolto da un nuovo corso che può annoverare molti volti nuovi tra le proprie fila. Così non è andata ma la resa dei conti sembra solo posticipata di un turno.

Compatto si ma in sofferenza anche il partito Repubblicano, che non dimostra ancora di aver trovato una strada alternativa capace di traghettarlo fuori dalla crisi di consenso che sembra affrontare. Un partito completamente “trumpizzato“, che in campagna elettorale non è riuscito a raccogliere neppure metà dei fondi accumulati durante lo scorso turno elettivo. Colpa di scelte comunicative sbagliate e sintomo della sofferenza interna di una compagine che negli ultimi due anni si è appiattita sugli slogan del Presidente, mettendo troppo poco in luce gli ottimi risultati economici che sta ottenendo con la continua crescita dei posti di lavoro e dei salari. “Tutti mi dicevano: parla dell’economia! Ok, lo so, abbiamo la miglior economia di sempre e i democratici sono socialisti, ma non è un tema elettorale proprio eccitante1 ha dichiarato Trump. Un risultato che pesa: aver puntato tutto sull’immigrazione ha colpito la pancia dell’elettorato repubblicano ma è perdente in prospettiva, specie ora che le scelte economiche dovranno passare al banco di prova di una Camera dove domina il blu. E tanto più a partire da queste elezioni in cui il peso elettorale delle minoranze è apparso in crescita, in alcuni casi determinante per il risultato.

Giovani, donne, minoranze ed omosessuali: tutte le “prime volte” delle Midterm elections 2018.

Una affluenza più alta del solito per queste Midterm elections – si ipotizza il raggiungimento del 45/50% degli aventi diritto contro il 37% del 2014 – comunque lontana da quella del 60% raggiunta nelle presidenziali 2016. Il dato che cattura l’attenzione sono però i nuovi gruppi di votanti, soprattutto i giovani e le donne, con le minoranze in crescita, segno che la polarizzazione su cui ha puntato Trump nei primi due anni di mandato ha motivato queste fasce di elettori a recarsi alle urne. 

D’altronde anche questo era già stato ampiamente preannunciato: il voto dei giovani avrebbe fatto la differenza. E pare che così sia stato. La grande mobilitazione organizzata dalle associazioni giovanili di tutto il paese ha avuto successo: le percentuali d’incremento al voto per la classe d’età tra i 18 e i 29 anni nei vari Stati si attestano tutte sulla duplice o triplice cifra. E come confermano le serie storiche, quando si mobilita la parte più giovane dell’elettorato, per i Repubblicani non v’è nulla di buono in arrivo…

Queste passeranno alla storia tuttavia anche come le elezioni dei record: oltre al record di longevità del repubblicano Donald Edwin “Don” Young per permanenza alla Camera (è al 24esimo mandato!), tra gli eletti si annoverano la prima deputata musulmana nella storia degli Stati Uniti (Rashida Tlaib, eletta in Michigan) e la più giovane deputata al Congresso, la già citata 29enne Alexandra Ocasio-Cortez, stella nascente dell’ala progressista del partito Democratico. Elette anche le prime due donne native: Sharice Davids, 38 anni, dal Kansas, apertamente lesbica in uno stato tradizionalmente conservatore ha battuto il deputato repubblicano uscente Kevin Yoder mentre Deb Haaland, 57 anni, in New Mexico ha battuto la repubblicana Janice Arnold-Jones ed il libertario Lloyd Princeton. Eletto infine anche Jared Polis, imprenditore e primo omosessuale dichiarato a ricoprire la carica di governatore, in Colorado. 

Record anche per la composizione femminile della Camera: per la prima volta nella storia degli Stati Uniti sembra che ci saranno più di 95 deputate, numero che già dalle prime conferme supera il precedente record di 84.


1 dichiarazione riportata dall’articolo di Paolo Mastrolilli comparso su La Stampa il 06/11/2018, ultima modifica il 07/11/2018.

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