Tra i tanti articoli comparsi in questi giorni, che inneggiano entusiasti alla nascita di un governo giallo rosso (o, con un po’ di onestà intellettuale, “giallo-rosa” visto che quelli del Partito Democratico sono abbastanza sbiaditi come comunisti, almeno dal punto di vista formale) è particolarmente interessante l’editoriale apparso sulla Stampa a firma di Maurizio Molinari intitolato “Il bivio dei populisti italiani“.
Nel pezzo l’autore sprona Di Maio a trasformare i pentastellati in una forza centrista.
“I maggiori partiti europei, conservatori o progressisti poco importa, – scrive Molinari – hanno in agenda lotta alle diseguaglianze, integrazione dei migranti, governance digitale, innovazione tecnologica, difesa dai cambiamenti climatici, taglio della spesa pubblica, riduzione del debito e aumento degli investimenti, lotta al terrorismo jihadista, rafforzamento della Nato, nuovi equilibri con Russia e Cina“. Molinari incita i grillini lasciarsi alle spalle l’identità rudimentale di partito di protesta che avrebbe isolato l’Italia in Occidente e, secondo la sua visione, aggravato la crisi economica ed indebolito dal di dentro le istituzioni repubblicane.
Anche se è più arduo capire esattamente in base a quali dati si riterrebbe aggravata la crisi e perché sarebbero state indebolite quelle stesse istituzioni che esercitano pienamente le loro prerogative costituzionali, ciò che è interessante nell’articolo non risiede in quell’allarmismo dilagante e privo di reali motivazioni come ammesso dallo stesso Massimo Cacciari alcuni giorni fa, bensì in ciò che l’autore chiede, che poi è quello che buona parte dell'”intellighenzia” di questo paese chiede a Di Maio: la “trasformazione moderata di una grande forza populista“.
La parola chiave è “Trasformazione” ossia “mutazione”, “cambiamento”.
Non un’evoluzione poichè anche in politica l’atto dell’evolversi corrisponde al percorrere un cammino coerente. Semplicemente si chiede ai pentastellati di cambiare la loro natura: da “movimento di protesta” a “partito di palazzo”.
In buona sostanza si chiede al Movimento di sottrarsi alla sovranità popolare, che per questo è un dogma sin dagli albori. Gli si chiede di abbracciare quella democrazia rappresentativa che almeno sul web ed almeno a parole hanno sempre combattuto e di mettere le istituzioni ed i corpi intermedi prima dei cittadini.
Questo accadrebbe qualora i pentastellati scegliessero di entrare in un governo che la gran parte dei loro elettori dichiara chiaramente di non volere.
Significa semplicemente chiedere ai cinque stelle di suicidarsi come movimento e di reinventarsi politicamente senza potersi più distinguere da tutti gli altri partiti tradizionali che hanno sempre storicamente criticato, facendo di questa critica la propria cifra d’autenticità.
Sarebbe come chiedere a LEU di rinnegare le tesi immigrazioniste, alla Meloni di abiurare il patriottismo, a Salvini di cedere sul sovranismo.
Non si può stipulare un contratto tra Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico come lo hanno fatto i pentastellati con la Lega poiché mancherebbe, alla base, quell’humus comune che può portare a trovare tematiche anti-establishment contro lo strapotere dei burocrati europei e l’egemonia dei mercati, capace di ispirare un’azione di governo magari turbolenta, ma sicuramente profondamente innovatrice.
I contraenti hanno posizioni di partenza troppo differenti per poter trovare una comune radice per portare avanti un’azione governativa dirompente, dunque o fanno un contratto dove parlano del nulla e governano il nulla, astenendosi dal prendere decisioni importanti e “tirando a campare” come hanno fatto tanti governicchi dell’Italia democristiana oppure una delle due parti sarebbe costretta a cedere.
Per i pentastellati entrare in una coalizione stabile con il Partito Democratico significa anche, per espressa richiesta del segretario democratico, allearsi nelle amministrazioni locali e dunque accettare compromessi con il PD. Compromessi che sono stati alla base delle lotte che hanno caratterizzato il Movimento Cinque Stelle e che tutt’ora costituiscono la radice del loro consenso a livello nazionale, nonchè la loro più profonda identità.
In sostanza si chiede ai Cinque Stelle di rinnegare se stessi e di diventare un’altra cosa, qualcosa di informe ed ideologicamente confuso che causerebbe un danno non solo di immagine ma anche – soprattutto – di sostanza al Movimento.
La storia d’altronde dimostra che si spostano più facilmente i parlamentari che i voti, laddove si mettono in discussione i temi, le posizioni, lo stile responsabili del consenso di un soggetto politico. Che sia questa una strategia del PD?