Chiamateli pazzi, ridicoli, anacronistici. Chiamateli neofascisti, come hanno già fatto le tv e i croati, per prendere le distanze e sentirsi a posto con la coscienza. Ma quei tre ragazzi fermati a Fiume, perché hanno innalzato la bandiera italiana sul Palazzo del Governatore, nel centenario dell’impresa dannunziana di Fiume, a me fanno simpatia, forse invidia. Anzi ammirazione. Ho incerte notizie sull’accaduto, non so nulla di loro, ma ne avessimo di ragazzi pronti a rischiare per una causa persa, e nobile; non per i soldi, non per i selfie, ma per quel pazzo amore che è l’amor patrio, per memoria storica e gloria letteraria. Ne avessimo di ragazzi fuori formato, anzi extra format.
Si, per carità, so che queste imprese sono puramente dimostrative, del tutto inutili, non producono frutti e creano qualche fastidio alle diplomazie. Ma le imprese più inutili sono le più nobili, le imprese assurde sono quelle che lasciano il segno e restano impresse nel tempo. Ricordate le imprese di D’Annunzio, i volantini su Vienna, le imprese marine e sottomarine, e poi il pitale lanciato dai dannunziani su Montecitorio. Per carità “repetita non iuvant”, ma è bello vedere dei ragazzi nati nel duemila che considerano la storia una cosa viva, aperta come una ferita, controversa, da scrivere e non solo già scritta, digerita, evacuata e sparita.
Colpisce, anzi sorprende, che nel tempo dell’oblio, della smemoratezza storica e del passato così remoto da essere ormai rimosso, ci sia qualche ragazzo che si ricordi di D’Annunzio, di quegli eroi, di quell’avventura d’italianità e magari di quella Costituzione del Carnaro che fu davvero e non per modo di dire, la più bella del mondo. Perché la scrisse un poeta insieme a un grande sindacalista, perché era scritta sulla propria pelle, con i propri versi, con una grande tensione ideale e civile, perché voleva conciliare l’amor patrio con la giustizia sociale, Un amore per l’italianità a volte pomposo, magari retorico, ma sempre scontato sulla propria pelle.
Si, per carità, so bene che rivendicare l’italianità di Fiume oggi è insensato. So benissimo che l’Italia è momentaneamente assente, lasciate un messaggio e vi richiamerà se sarà un domani possibile. Nel tempo dell’Italia spappolata e distesa a tappetino, che bacia la pantofola agli eurocrati, si allinea al politically correct, si intruppa nell’euroconfomismo, l’Italia che si para le chiappe e s’inchioda alle poltrone, ci sono ragazzi che vogliono andare contro la corrente, vogliono testimoniare una grottesca passione per quel mezzo cadavere glorioso che è il nostro Paese. Ragazzi non so chi siate ma, per dirla col linguaggio storico, preistorico o eterno, avete reso onore all’Italia.
Un abisso, voi dite, tra il nostro oggi coi suoi problemi e quei cent’anni fa, venuti da guerre e gesta, gesti ormai irripetibili; vero, ma un abisso più grande separa i moventi della politica del nostro tempo e le motivazioni ideali, un po’ insane, convengo, che spingono due ragazzi a riaprire una pagina di storia in piena pagliacciocrazia trasformista. D’Annunzio criticava il “Cagoia” che era al governo, come aveva con ignominia ribattezzato Nitti; non aveva visto questi…
Ma che vai a impicciarti di Fiume-Rijeka, come la chiamano i croati, ora che si accinge a diventare per il 2020 capitale europea della cultura, che vai a creare incidenti diplomatici, sussurra la gente anche al sindaco di Trieste Roberto Di Piazza, e al governatore della Regione Abruzzi, Marco Marsilio, che ricordano il Poeta-Soldato e lo scultore Alessandro Verdi che ha scolpito la statua dedicata a D’Annunzio, bollata come scandalosa dai croati e dai loro “collaborazionisti” nostrani. Assurdo, anche se poi, se è diventata capitale europea Fiume lo deve alla civiltà italiana, europea, veneziana e anche all’eroica impresa di D’Annunzio e dei suoi duemilaseicento legionari. Un’impresa che in quel tempo piacque a tanti, e non solo ai nazionalisti e ai fascisti, anzi generò qualche imbarazzo in Mussolini; piacque a Gramsci, colpì Lenin, attirò militari, eroi, frati e poeti da tanti posti del mondo. Arrivò Guglielmo Marconi, arrivò F.T. Marinetti, il mondo si trovò di fronte a una festa politica che fu un ’68 ante litteram ma in versione epica e letteraria: gli occupanti non venivano dal benessere ma dalle trincee, avevano visto la morte in faccia e non la tv dei ragazzi. Avevano scritto opere destinate a restare, non manuali per la guerriglia o commenti ai pensierini di Mao…
Fiume vuol dire poi foibe, gli italiani uccisi, deportati e cacciati da casa loro, Fiume vuol dire battaglie di piazza e di trincea per rivendicarne l’italianità.
Nessuno pensa che si possa affrontare il futuro tornando al passato, nessuno ha nostalgia delle guerre e delle violenze. E nemmeno dei nazionalismi; qui si parla di civiltà italiana, si parla di lingua, di Dante, di D’Annunzio, di opere d’arte, di città con l’impronta italiana, cattolica ed europea, ci sono linguaggi retaggi e paesaggi evocatori.
Si tratta di capire che non possiamo vivere di solo presente, non possiamo accontentarci di Conte e del circo quotidiano in tv; vogliamo collegarci al passato, ricordare la storia, fare paragoni, leggere criticamente gli eventi, dirci orgogliosi dei nostri geni letterari e dei nostri eroi. Perché solo rispettando il passato sarà possibile avere il futuro. Il Fiume della storia scorre implacabile, non si ferma mai; ma come l’acqua che scorre è pure la tradizione di un popolo che sgorga e fluisce di generazione in generazione, si modifica nelle forme e nei linguaggi del tempo ma si trasmette. A ricordarci chi siamo, chi fummo, e, si spera, chi saremo.
MV, La Verità 13 settembre 2019