Pensione: serve invertire la rotta
La vecchiaia è uno di quegli eventi indicati nella nostra Costituzione all’articolo 38 comma 2.
È un evento che genera, il più delle volte, una inattitudine della capacità lavorativa e, consequenzialmente, impossibilità di produrre reddito
La pensione, quindi, si prefigge come obiettivo quello di garantire una forma di reddito prodromica al soddisfacimento delle esigenze di vita in assenza di lavoro.
Il trattamento pensionistico viene corrisposto sia in modalità previdenziale – quindi per coloro che abbiano raggiunto i requisiti di anagrafica biologica nonché di anagrafica contributiva -, sia in forma assistenziale; in questo ultimo caso parliamo di “pensione sociale”, la quale viene corrisposta verso quei soggetti che, raggiunta l’età anagrafica pensionistica (oggi 67 anni), non abbiano, però, maturato l’anzianita’ contributiva minima (20 anni).
Nel nostro ordinamento esistono, quindi, forme pensionistiche c.d. ordinarie, forme pensionistiche c.d. sociali e poi, stando ai vari interventi legislativi, forme di prepensionamento che di governo in governo sono state introdotte in maniera evidentemente derogatoria rispetto agli standard ordinari.
Origini e sviluppi
Il concetto di pensione inizia a svilupparsi nel corso del ventennio fascista. Il trattamento pensionistico era riconosciuto laddove fosse maturata una età di 60/65 anni.
Con l’entrata in vigore della Costituzione, ci si è mossi verso un sistema di tipo sociale. Le tappe successive al fascismo sono state:
a) La legge del 1952 aveva introdotto la libertà dal bisogno come finalità della tutela, perciò non necessariamente connessa alla contribuzione versata e alla solidarietà;
b) Le riforme tra gli anni 60-80, avevano riconosciuto prestazioni pensionistiche all’età di 55 anni per gli uomini, 60 anni per le donne, con anzianità contributiva minima di quindici anni.
c) anni ‘90: viene elevata l’età a 60/65 anni con requisito contributivo minimo di 15/20 anni. Con la riforma del 1995 ci si è mossi verso la formula contributiva, provvedendo alla graduale eliminazione di quella di anzianità (c.d.retributiva);
d) legge del 2011: ha inasprito tanto l’età pensionistica, tanto quella contributiva. Con questa legge, il metodo di calcolo diventa esclusivamente contributivo. Le motivazioni che hanno sorretto tale normativa è’ stata incentrata principalmente dal generale invecchiamento della popolazione e della scarsa propensione alla natalità da parte del nostro Paese.
Pluralità di Enti
Spesso, nella concezione comune e generale, si pensa che sia soltanto l’INPS l’istituto che provveda all’erogazione delle pensioni; affermazione vera a metà. L’INPS è certamente uno di quegli istituti dediti a tale attività, ma non il solo. Nel nostro panorama ordinamentale pensionistico esistono, altresì, anche gli enti c.d privatizzati. L’INPS è competente ad erogare forme pensionistiche verso tutti quei lavoratori subordinati (tanto pubblici, tanto privati), lavoratori dello spettacolo, sportivi professionisti, lavoratori para subordinati. Circa i lavoratori autonomi, questi hanno appositi enti previdenziali di riferimento, definiti appunto “privatizzati” (non operano per gli Artigiani, Commercianti, Coltivatori Diretti, i quali hanno apposite Casse di riferimento presso l’INPS).
Metodo Contributivo e Retributivo
Nel tempo, è sempre stata praticata la distinzione tra metodo di calcolo contributivo e retributivo. Negli anni si sono sempre susseguite novità legislative che , alternativamente, hanno valorizzato sia l’uno che l’altro metodo.
Circa le differenze, se il metodo retributivo prende come montante di riferimento – per la determinazione del quantum pensionistico – le retribuzioni degli ultimi anni di lavoro – con l’elaborazione di calcoli appositi -, il metodo contributivo, invece, prende come montante di riferimento il quantum complessivo dei contributi versati nel corso della vita lavorativa.
Dal 2011, in ogni caso, vi è stata una presa di posizione verso l’adozione esclusiva del metodo contributivo.
Un cane che si morde la coda
Il nostro ordinamento prevede, come requisiti minimi di accesso alla pensione ordinaria, una età anagrafica di 67 anni correlata ad una anzianità contributiva minima di 20 anni. È inevitabile, però, che limitarsi a raggiungere una contribuzione puramente ventennale, espone il beneficiario all’ottenimento di una pensione particolarmente bassa dal punto di vista dell’importo poi corrisposto. Insomma, più anni di contribuzione si riescono a mettere sul “groppone”, meglio è.
Seguendo invece i canali del prepensionamento, non sono mancati, negli anni, interventi in tal senso da parte dei vari governi che si sono susseguiti.
Ricordiamo tutti gli slogan del Movimento 5S su Quota 100, poi divenuta Quota 102; oppure l’introduzione dell’APE avutasi nel 2016 con l’allora Governo Renzi, rimasta in vigore fino al 2021.
Ora, al di là delle innumerevoli forme di prepensionamento, forme quindi derogatorie rispetto agli standard ordinari, qualcosa sul sistema pensionistico in generale va detto. L’Italia è storicamente tacciata di essere un paese “vecchio”; lo dicono i dati, le statistiche. Questo produce effetti evidentemente negativi sugli istituti previdenziali. A fronte di grandi masse di pensionati, ci sono, in proporzione, pochi lavoratori. Se ci sono meno lavoratori, ci saranno meno forme di finanziamento – attraverso la contribuzione periodica – nelle casse di questi enti. Non è un caso, infatti, che spulciando i bilanci degli enti, questi siano costantemente in perdita, inducendo lo Stato, puntualmente, ad effettuare dei “rabbocchi” economici.
La consuetudinaria presenza di indici negativi nei bilanci, il puntuale e periodico innalzamento dei requisiti pensionistici, rappresentano elementi di una evidente conseguenza dovuti alle scelte irragionevoli dei governi del passato. Il cambio di rotta può aversi soltanto laddove si inizi, concretamente, a prendere cognizione del problema reale.
Le sfide si vincono mettendoci la faccia, non nascondendo la polvere sotto il tappeto
Il diritto alla pensione è un diritto sacrosanto; tutti hanno diritto di poter godere degli ultimi anni di vita con serenità e adeguata copertura pensionistica. Se non si inizia seriamente a mettere mano a politiche di valorizzazione concreta della famiglia, della natalità, quindi politiche volte ad uno svecchiamento della popolazione, il rischio futuro concreto è che le nuove generazioni vedano completamente neutralizzato questo loro diritto. A ben poco, e lo dicono i dati, sono servite le forme di previdenza complementare (c.d. fondi pensione), introdotte per la prima volta sul finire degli anni ‘90 del secolo scorso.
Un governo che si professa vincente, non può che tenere evidentemente conto anche di questi aspetti che, se non affrontati nell’immediatezza, rischiano di rappresentare, in futuro, una montagna difficile da scalare.
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