Femministe – C’è stato un tempo in cui il reggipetto era la quintessenza della gabbia sociale destinata al gentil sesso. Un feticcio. Il peggiore. Tanto che quando nel 1968 il gruppo femminista New York Radical Women picchettò il concorso di Miss America minacciando di dare fuoco a scopettoni, fondotinta, corsetti e altri «strumenti di tortura» nacque la leggenda, tuttora inossidabile, del rogo dei «balconcini» di pizzo, la vendetta delle streghe, il falò della vanità.
Le cose andarono diversamente e al netto dei proclami non ci fu in realtà alcuna biancheria incenerita. Ma l’immagine è forte, resistente: un ribaltamento semantico in cui convivono la forza iconoclasta della rivoluzione femminile e il suo opposto, la caricatura della militante frigida e sciatta che da allora accompagna l’emancipazione. Poi è arrivato il coronavirus.
«I reggipetti si sono estinti»
E sono arrivati il distanziamento, lo smart-working, la sindrome della capanna, la moltiplicazione come pani e pesci delle incombenze professionali e familiari, il disagio di misurarsi con una dimensione nuova e la scoperta di poterlo fare, prigionieri del tempo ma totalmente padroni dello specchio.
«I reggipetti si sono estinti» sentenzia il “New Yorker” in una lunga rassegna dei danni collaterali della pandemia, dalla febbre del sabato sera al piacere masochistico ma circoscritto di lavare i piatti una tantum. Constatata l’efficienza della routine scamiciata, l’innocenza è perduta. La femminilità è performance in sé o necessita una platea? C’è vita oltre il wonderbra e se c’è, sarà il covid a dare il colpo di grazia all’antico feticcio sessantottino? Tra le scrittrici femministe americane la questione è diventata semi-seria, politica.
Germaine Greer
«Cara Elizabeth, tutto bene? E’ da tempo che non ci vediamo, siamo sempre qui pronti a sostenerti ma cominciamo a temere di ammuffire impolverati in fondo al cassetto» scrive ironica sul «New York Times» la bioetica di Fordham University Elizabeth Yuko, immedesimandosi con i propri reggipetti dimenticati, a buon diritto, in un armadio. Chloe Tejada sull’«Huffington Post» invita a rinchiudere «quelle prigioni» nei comò bui a cui appartengono mentre Kerry Pieri, responsabile del settore moda di «Harper’ s Bazaar’ s», la mette giù come un cambio di stagione: e se, liberato il seno da bretelle e gancetti, non lo ringuainassimo più?
La letteratura aiuta le audaci. I testi di riferimento non mancano, ma citatissima è l’accademica australiana Germaine Greer, autrice di vangeli femministi come «L’eunuco femmina» e nota per ripetere: «Se una donna non si lascia mai andare come potrà sapere quanto lontano può arrivare? Se non si toglie mai le scarpe con i tacchi come potrà sapere quanto veloce può correre?».
I tacchi
I tacchi, appunto. Il cedimento estetico all’innaturale, l’imbrigliamento in una taglia ridotta, il reggipetto. Poi certo, la questione non è così tranchant come, guardandosi alle spalle, appare oggi l’eredità del lockdown.
Susanna Cordner, direttrice degli archivi del London College of Fashion, spiega all’inserto del «Washington Post», «The Lily» che «liquidare il reggiseno come un semplice simbolo patriarcale o una costruzione sociale inutile significa ignorare l’esperienza di corpi diversi dal nostro, laddove per alcune non è un indumento necessario ma per altre allevia dolore e disagio». Lui resta lì, comodo, scomodo, mortificante, sexy da morire. Un feticcio che rinasce dalle sue ceneri.
Francesca Paci per “La Stampa”
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