Pipino – In fondo la poesia è il sogno di tornare bambini. Lo dico nella giornata mondiale dedicata alla poesia. Vivere una vita di ritorno e rifiorire sull’orlo estremo della vita. Un desiderio inconfessato dell’immaginario intimo e universale è la vita capovolta, percorsa contro mano, dove la fine somiglia all’inizio e il puer esce allo scoperto dalla larva del senex. Come una clessidra.
Da bambino mi raccontavano la storia di Pipino nato vecchio e morto bambino. Pensavo che fosse una filastrocca popolare; era invece il titolo di un’opera, uscita a puntate su una rivista milanese del primo Novecento, L’Adolescente, e poi diventata libro nel 1911: Storia di Pipino nato vecchio e morto bambino. L’autore è Giulio Gianelli, torinese, poeta, scrittore e giornalista di scarsa fortuna e gran cuore, collaboratore di riviste d’epoca come Il Venerdì della contessa e L’Artista moderno.
Sulla scia di D’Annunzio, tentò pure di scrivere soggetti per il cinema. Gianelli fu uno di quegli scrittori crepuscolari del primo Novecento, come Sergio Corazzini e Marino Moretti, vicino al loro “patetismo”; amico di Gozzano e di Cena, di Sibilla Aleramo e di Eleonora Duse. Di cagionevole salute, di vita breve, solitaria e dolorosa, facile al pianto e alla tenerezza, lo chiamavano Gianellino perché piccolo di statura, con la pipa sempre in bocca e un cappellino in testa. La sua opera sulla vita inversa, benché dimenticata, tocca un sogno recondito dell’umanità.
Platone narrò dei vecchi che diventavano giovani, recuperando chiome e vigore, in un mito famoso che diventò il modello di un’utopia. A Pipino ho accennato nel romanzo spirituale che uscirà dopo Pasqua. Ora ne parla anche uno studio di Patrizia Deabate, dedicato al parallelo col racconto di Scott Fitzgerald (divenuto un film di David Fincher con Brad Pitt) sullo strano caso di Benjamin Button, che dà il titolo anche alla ricerca. L’autore americano, lo scrissi anni fa, ricalcò la storia di Pipino nato vecchio e morto bambino.
Pipino non ebbe la fortuna di Pinocchio, Gianelli non aveva il vigore favoloso di Carlo Lorenzini. Ma la sua storia sembra ricalcare quella del burattino di Collodi, è la metafora di un viaggio iniziatico, il mito della vita rigenerata e ribaltata. Pipino è a metà tra le avventure fantasiose e simboliche di Pinocchio e l’epopea storico-lirica del Cuore di De Amicis, di cui condivide il fremito religioso, morale e patriottico, il sentimento e l’intento educativo. Pipino è nella scia del romanzo popolare e pedagogico italiano di fine ‘800.
“Diventerai un uomo come gli altri, poi un giovane, poi fanciullo, poi bimbo; alla fine ti daremo a balia e dentro una culla chiuderai la tua esistenza”. Così è descritta nelle prime pagine la parabola di Pipino e il suo itinerario nel mondo incantato di fate, draghi, grilli e melograni, eserciti di fantasia, maestri che reinventano magicamente l’alfabeto.
Nella sua trasfigurazione c’è lo spirito dell’epoca: ci sono gli scioperi che l’autore avversa, c’è l’amor patrio e la sua denigrazione, c’è la polemica col positivismo e lo scientismo nel nome dello spirito e della poesia: “Il mondo ha bisogno di poesia, ma buona, vera, santa, quella che balza dal cuore commosso, quella che è dolce come la preghiera, forte come la quercia secolare, bella come il mare, gioconda come l’acqua.
La poesia ispira la carità e la pazienza… consola il dolore, rende soave la morte. Siate poeti, ma non delle parole, bensì dell’ideale (…) Andate, bambini: portate nel mondo il dono che gli uomini avevano perduto”. Parole tenere, un po’ stucchevoli, ma di viva spiritualità e di sincero slancio ideale.
L’opera rispecchia pure la vita dell’autore, la sua precoce orfanità e la sua ricerca, tramite il mitico ritorno all’infanzia, della Madre e del Padre perduti; c’è il suo animo generoso che lo portò a soccorrere i terremotati di Messina e ad adottare due bambini scampati alla tragedia, Ugo e Mario, che riappaiono nel romanzo coi nomi di Ughé e Mariù, “due anime belle”, a fianco di Pipino fino alla morte.
Pipino nacque come una favola domestica da raccontare a loro; poi diventò novella, “e la fantasia diventò pane”. Gianelli si trasferì a Roma e li fece studiare al Collegio Nazareno. Nel suo cammino a ritroso verso l’infanzia e la morte, Pipino si diceva contento di “vedersi rimpicciolire e ringiovanire” e “lo pungeva il desiderio di riposare in pace”, nel grembo della vita eterna.
Tre anni dopo il suo Pipino, la tbc si portò via l’autore. “Il suo corpo scompariva a poco a poco, non così l’anima sua, viva e grande, presente in tutte le opere sue”, scrissero di lui, ormai identificandolo col suo personaggio. La vita copiò dalla letteratura, direbbe Oscar Wilde.
L’epigrafe per la sua tomba al Verano a Roma fu scritta da Giovanni Cena: “Orfano, ebbe fratelli tutti gli uomini/ compagne povertà e poesia/ vasta anima umana/ in corpo di fanciullo/ si franse per pienezza d’ardore/ coloro che lo conobbero/ si sentirono migliori”.
Del suo stile e del suo fervore ideale e religioso, della sua anima da fanciullino, si persero le tracce. Ma restò nell’aria e nella psicanalisi il mito di una vita capovolta, quel sogno di ritrovare l’infanzia in extremis, il Puer Aeternus, e il ricominciare daccapo, avere un’altra possibilità, andare incontro alla Vita, contromarcia… Perduta la prospettiva della vita eterna, il sogno si trasferì in terra e il desiderio di ringiovanire passò dalla poesia alla tecnoscienza.
Il biotech ricerca come ridare giovinezza alla senilità. Ritorna il sogno d’invertire la marcia della vecchiaia, tramite farmaci, genetica e chirurgia. Ma stavolta è mosso da ragioni bio-sanitarie e da pulsioni di potenza transumane. Non sono animati come Pipino dal lievito magico della poesia e dal cammino iniziatico verso la purezza dell’infanzia.
MV, La Verità 21 marzo 2021
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