Il Corriere della sera ha pubblicato l’altro giorno un discorso di Aldo Moro per Radio Bari dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, contro la dittatura. Il linguaggio è involuto e non c’è una chiara e netta condanna del fascismo né un’adesione all’antifascismo, come sembra invece suggerire il quotidiano milanese. “Un antifascismo inclusivo” dice Renato Moro. In realtà pochi mesi prima Moro nel corso universitario del 42-43 dedicato all’idea di Stato, Aldo Moro aveva definito la razza “elemento costitutivo della nazione”. “La razza – scrisse Moro – è l’elemento biologico che creando particolari affinità, condiziona l’individuazione del settore particolare dell’esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo delle particolarità dello Stato”.
Nel periodo tra il 1943 e il 1946, Moro fu tra i cofondatori del settimanale barese La Rassegna, accusato dalla sinistra di neofascismo e di qualunquismo. Bari, all’epoca era un laboratorio nazionale e non solo per via di Radio Bari e del congresso del Cln. A Bari è nato il primo numero dell’Avanti postfascista, diretto da Eugenio Laricchiuta e con collaboratori Nenni e Saragat. A Bari nacque l’organo degli azionisti Italia del popolo e il primo giornale non clandestino del Pci, Civiltà proletaria, diretto da Michele Pellicani, con le firme di Di Vittorio e di Pesenti. A Bari nacque pure nel ’45 il primo foglio neofascista, il Manifesto di Pietro Marengo. In questa Bari pulsante di politica, vide la luce La Rassegna, stampato presso la tipografia della Gazzetta del Mezzogiorno, in cui scrivevano docenti e giornalisti che oggi si direbbero di centro-destra.
Il Moro che scrive su La Rassegna diffida dei partiti, Dc inclusa, si appella agli apolitici e agli indipendenti, guarda con simpatia all’Uomo qualunque di Giannini e al governo Badoglio e non disdegna di dichiararsi a certe condizioni “uomo di destra”. Ad esempio, l’8 maggio del ’45 Moro scrive “Le destre come consapevolezza storica, come visione realistica della vita umana, come misura vigile contro le tentazioni dell’entusiasmo, non possono e non debbono essere sconfitte”. Moro si riferisce a una destra come temperamento, come mentalità; rispetto ad esse “noi siamo di destra limitatamente a questa serena realistica considerazione”. In precedenza, Moro aveva notato la differenza di stile tra destra e sinistra: “le prime pronte a riconoscere valore all’ideologia avversaria, finché non diventi esclusiva, le seconde portate invece a negarle del tutto, se pure si adattano per ragioni tattiche, al compromesso della convivenza”. Quasi proiettando i tratti del proprio carattere nella destra, Moro notava che “la ragione della debolezza delle destre” fosse in quella “timidezza cauta” che non incendiava le masse “galvanizzate dalla irruenza veemente della intransigenza di sinistra”. Di destra sociale, si potrebbe aggiungere, perché Moro a differenza dei suoi colleghi più liberali, impiantava i suoi valori di libertà e di realismo nella dottrina sociale cristiana. Del resto, la sua stessa iscrizione alla Dc nel ’46 avvenne su spinta dell’arcivescovo Mimmi di Bari, un conservatore che lo aveva nominato segretario nazionale dei laureati cattolici e poi lo aveva sostenuto alla guida della Domus Mariae per frenare le aperture a sinistra nella Dc di un altro ex-fascista dossettiano, Amintore Fanfani. Moro condivise la battaglia de La Rassegna contro il Cln, contro le epurazioni e l’egemonia dei partigiani. Scriveva il 12 marzo del ’45 che “la milizia irregolare” dei partigiani richiamava “spiacevoli ricordi della rivoluzione permanente e del suo presidio armato…noi guardiamo con tanto timore l’esercito dei partigiani…e certe spavalderie da bravi”. E temeva soprattutto che le armate partigiane, godendo di perfetta autonomia, “si facciano persino giustizia da sé. E di che giustizia si tratti si può bene immaginare”. Per un intellettuale dal linguaggio paludato come Moro, era già un significativo esporsi.
Curiosamente, per colpire queste tesi del giornale moroteo, notava in un suo pamphlet Pinuccio Tatarella, fu coniata per la prima volta l’espressione “neofascismo”, oltre che clerico-fascismo, da Civiltà Proletaria e da Italia del popolo. I due giornali di sinistra rinfacciavano a Moro e al gruppo de La Rassegna le loro origini fasciste mal celate e il loro “attendismo carrierista”. L’accusa era: fanno gli indipendenti, perché non hanno ancora capito a quale partito convenga oggi affiliarsi. Moro si distaccò dal giornale qualunquista alla fine del ’45 per dedicarsi alla Fuci, in polemica con la dc ciellenista guidata a Bari da Troisi e Calcaterra. Poi le vicende della storia, il realismo politico e forse il cinismo, portarono Moro verso sinistra. Ma conservando l’indole moderata di chi voleva narcotizzare l’avversario e sedare il conflitto. Non aveva fatto i conti con la “giustizia armata” delle “milizie irregolari”, i brigatisti rossi che il 9 maggio del ’78 assassinarono lo statista pugliese.
MV, 9 maggio 2019