A ogni corteo del Primo Maggio le mie vecchie zie ricordavano con orrore l’eccidio delle sorelle Porro ad Andria nel loro palazzo di famiglia. In realtà era accaduto in occasione della prima Festa della Donna – che dunque cominciò con un duplice femminicidio “progressista” – ma il corteo dei lavoratori, la Cgil di Peppino Di Vittorio, i comunisti, suscitavano nelle case dei signori e dei proprietari quel ricordo spaventato. Ricordo uno slogan sentito da bambino a piazza Catuma, ad Andria: “Nemmeno un padrone si salverà”. Nicola Porro avrà una memoria famigliare più diretta delle due signorine trucidate dalla “cieca plebe pervertita”, come fu scritto nel manifesto funebre. Va pure detto che nel dopoguerra le condizioni dei braccianti in Puglia erano infami, sfruttati e trattati come schiavi dai caporali, a volte costretti alle museruole per non mangiare i frutti raccolti…
Per decenni quell’eccidio fu rimosso o considerato un tributo inevitabile al progresso sociale o un esempio di lotta di classe, antipasto della rivoluzione. Luciana Castellina e Milena Agus hanno dedicato a quell’eccidio un libro – Guardati dalla fame – comprensivo sia verso le due sorelle, che consideravano l’ingiustizia sociale come un fatto naturale, una sorte, sia verso la folla inferocita che le uccise. Il mondo è cambiato, i nuovi signori ora sono radical chic e i nuovi affamati sono i migranti che sbarcano. E comunque i poveri stanno con Salvini o coi 5stelle. Ma uccidere due donne inermi e devote, solo perché rappresentavano la classe odiata, resta una vile barbarie e un crimine comunista. Vale usare la definizione di femminicidio anche se le due signore non erano emancipate femministe ma anziane possidenti all’antica?