A trent’anni giusti dalla sua morte suscita polemiche a Pisa, sua città natale, l’intitolazione di una rotatoria a Beppe Niccolai. Sinistre e Anpi indignati chiedono di negare la piazza al “fascista”. La giunta di centro-destra aveva ecumenicamente intitolato una via a un comunista, a un democristiano e a un missino.
Chi era Niccolai? Un politico galantuomo, un missino eretico che sognava di ricucire la ferita storica tra fascisti e comunisti e combattere insieme contro la mafia e il potere, i potentati economici e la servitù americana. Beppe fu un limpido marziano che visse nell’era ideologica integrale, il Novecento, assorbendo le sue passioni ma non i suoi livori.
In principio Niccolai fu tra i fondatori del Msi nel segno di “legge e ordine”. Poi si andò spostando verso una sinistra nazionale e spirituale, auspicando di ricucire la frattura del ’14 coi socialisti, poi spingendosi fino a quella del ’21 coi comunisti. Non condivise però la linea di Pino Rauti di sfondare a sinistra; sognava altre sintesi.
Niccolai morì il 31 ottobre dell’89, nove giorni prima che cambiasse il mondo, col Muro crollato e la caduta del comunismo, e da noi la fine della prima repubblica. L’anno prossimo sarà il centenario della sua nascita.
Quando morì, Niccolai lasciò un vuoto, ma era lo stesso vuoto che lo circondava quando era in vita. Beppe dissentiva da Almirante, e spesso era all’opposizione nell’opposizione, distante pure da Rauti. L’avevano sistemato in una teca, con l’etichetta di coscienza critica, per venerarlo e accantonarlo. Niccolai era pisano e perciò destinato, per Dante, a vituperio delle genti. E vituperio fu con le sue idee provocatorie. Ma a conoscerlo era amabile e inquieto, tutt’altro che un fascistone prepotente con le certezze granitiche, in bianco e nero. Fascista lo era stato davvero ma sulla sua pelle: volontario in Africa, e poi – per fedeltà al suo fascismo, prigioniero degli americani nel fascist criminal camp ad Hereford, come l’artista Alberto Burri, lo scrittore Giuseppe Berto e Roberto Mieville, futuro capo dei giovani missini della prima ora.
A Pisa fu l’antagonista storico di Adriano Sofri, che mobilitò Lotta continua per impedire un suo comizio il 5 maggio del ’72. Negli scontri con la polizia morì un anarchico, Serantini, e anche per vendicare lui pochi giorni dopo fu ucciso Calabresi. Ma Niccolai difese il “nemico” Sofri quando fu accusato d’omicidio. Da parlamentare fece memorabili interventi in commissione antimafia contro le collusioni politiche, soprattutto democristiane, e fu elogiato anche da Leonardo Sciascia, allora parlamentare di sinistra. Denunciò le stragi e le responsabilità dei servizi segreti; e riuscì a scucire la verità ai magistrati veneziani sull’aereo Argo 16 della nostra aeronautica abbattuto dagli israeliani nel novembre del ’73 a Venezia uccidendo i militari italiani a bordo, accusati di aver salvato alcuni terroristi arabi che preparavano un attentato a un aereo di linea israeliano. Un’operazione filo-araba condotta dall’allora Ministro degli esteri Aldo Moro.
Nel 1988 Niccolai fu espulso dal Msi: fu il primo atto compiuto da Fini leader. Beppe aveva fatto votare alla direzione del partito un ordine del giorno contro i potentati economici che aveva ripreso da un comitato centrale del Pci: Fini aderì convinto con l’Msi. Poi Niccolai raccontò al Corriere della sera la beffarda verità e Fini lo cacciò perché all’epoca aveva orrore delle contaminazioni con la sinistra; fu poi riammesso grazie ai buoni uffici di Tatarella ed altri. Ma il suo scopo non era goliardico, non voleva prendere in giro il suo partito, ma dimostrare che i pregiudizi ideologici impediscono a volte convergenze su temi condivisi.
Incontrai Niccolai perché era in possesso di appunti inediti di Berto Ricci, fascista eretico dalla mente lucida e il cuore puro, che poi pubblicai con la prefazione di Indro Montanelli. Ricordo una sera a Pisa, in una scalcagnata 500 guidata da un militante di Cecina, Altero Matteoli, divenuto poi ministro. Nel sedile posteriore, in condizioni disumane, sedevano attorcigliati Niccolai e Tatarella; benché ragazzo, mi avevano lasciato il posto davanti, come si usa per cavalleria con le donne, i disabili e gli intellettuali. Niccolai maneggiava i quaderni di Ricci con religiosa devozione. Ci vedemmo altre volte, accomunati dal gusto ardito dell’eresia e dalla rivoluzione conservatrice, da amici comuni come Giano Accame e il pisano Gino Benvenuti; ci scoprimmo ambedue figli di presidi di liceo, cresciuti con una buona biblioteca in casa. Quando fui silurato dalla direzione editoriale di Ciarrapico nell’87, perché considerato di nuova destra e con simpatie per il socialismo tricolore di Craxi, scrisse un pezzo solidale sul suo foglio, l’Eco della Versilia e lo ribadì pure al congresso missino di Sorrento nel 1987, dove fu la voce stonata nel congedo di Almirante dalla guida del Msi.
Negli ultimi anni, quando interruppero la sua graffiante rubrica sul Secolo d’Italia, gli affidai una rubrica su Pagine Libere, che ribattezzammo Rosso e Nero, in onore dell’omonima rivista di Alberto Giovannini. Beppe non era un vecchio arnese, nell’Msi fu con l’ala modernizzatrice di Mimmo Mennitti, voleva aprire il ghetto missino, dialogare col Craxi patriota e sognava di ricucire con la sinistra. Beppe raccontava che l’ultimo Mussolini aveva raccomandato ai suoi fedelissimi: se crolla il fascismo, seguite Pietro Nenni. Beppe fu uno spirito critico e appassionato, pensante e romantico, magari impolitico. Era un marziano allora, figuratevi ora. Ad avercene…
MV, La Verità