Come oggi, trent’anni fa un ragazzo nella piazza Tienanmen sfidò i carri armati. Non fu un atto d’incoscienza perché il giorno prima il regime comunista cinese aveva già represso nel sangue la rivolta. Quindi sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Quando rivedo quel ragazzo con due buste in mano e la camicia bianca che si mette davanti ai mostri in marcia e si sposta appena i cigolati mutano direzione e offre la sua vita inerme alla loro meccanica ferocia, penso alla nostra idea di libertà individuale.
Ci siamo abituati a pensare alla libertà come valore assoluto e a riconoscerla nel diritto di fare tutto quel che vogliamo, perfino cambiar sesso, esibire i nostri gusti, fare i nostri comodi, liberarsi da limiti e confini, libero mercato e gl’individui liberi da ogni legame, fedeltà e ogni appartenenza. Ma questi sono modi pratici di vivere la libertà, non sono la libertà come dignità. La libertà diventa valore quando offri te stesso per affermarla: lui che sfida i draghi non ci mette solo la faccia ma la vita, con tutta l’anima e il corpo. Il singolo contro il Sistema. Quella è la libertà che merita onore, che è valore assoluto e principio di civiltà. Le altre sono, più modestamente, le libertà.
Il ragazzo di Tienanmen finì in carcere e poi in un manicomio, c’è chi dice che fu ucciso, non si sa come sia finito. Ebbe un destino persino peggiore di Jan Palach. Fu cancellato, sfumato, s’inabissò nell’inesistenza. Lui così fragile, forte solo delle sue gambe, della sua posizione eretta, del suo sguardo fiero, contro la ferocia impersonale di un carro armato. E dire che il fotoreporter americano quando lui entrò nel suo obbiettivo disse infastidito: “Quel tipo lì in mezzo mi rovina la scena”. Non capì che era lui la scena, era lui il simbolo, era lui che dava valore alla scena. Era lui il punto luce della storia e dell’umana dignità.