In vista del 2 giugno, è stato ritrovato e ripubblicato un discorso di Aldo Moro dai microfoni di Radio Bari nei giorni tempestosi del 1944. È un discorso di pacificazione nazionale, al di là del fascismo e dell’antifascismo. Un modello purtroppo non seguito in un Paese devastato dalla guerra civile e poi dall’odio incancrenito nei secoli.
A nord c’era la Repubblica sociale e la guerra partigiana, a Sud c’era il Regno d’Italia e il governo Badoglio; il paese era martoriato dalle truppe tedesche e dai bombardamenti anglo-americani. Il sangue correva per le strade, insieme alle bombe, ai rastrellamenti, alle violenze carnali. In quel frangente, il professor Moro dell’Università di Bari, nel testo ritrovato da Angelo Picariello e pubblicato dall’Avvenire e dalla Gazzetta del Mezzogiorno, rivolge un appello alla prudenza e all’umanità.
Nel suo linguaggio paludato, Moro esortava “a considerare con maggiore spirito e prudenza” i “drastici provvedimenti” in cantiere; riteneva che prima si dovesse definire chi è fascista, e “distinguere tra fascisti di tessera e fascisti di fede” e poi si dovesse procedere non in modo sommario, ma nella legalità, “con mente serena senza spirito di parte o di vendetta”.
Le posizioni fasciste di Moro
Era un appello alla pacificazione, com’era nell’indole di Moro, nella sua visione cristiana ma anche il frutto della sua personale vicenda. Moro era stato infatti fascista fino al ’43, e a giudicare da alcuni suoi interventi, non solo “fascista di tessera”; suo padre in quel tempo era a Padova e lavorava al Ministero dell’Educazione nazionale di Salò, sotto la guida del ministro fascista Carlo Alberto Biggini.
Nino Tripodi in Italia fascista in piedi documentò copiosamente le posizioni fasciste di Moro, nei Guf e da docente universitario. E ricordò anche quel che Moro scrisse nel corso universitario del ’43 su Lo Stato circa la razza, considerato “elemento costitutivo della nazione” (“La razza è l’elemento biologico che creando particolari affinità, condiziona l’individuazione del settore particolare dell’esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo delle particolarità dello Stato”). Un infortunio: è davvero difficile pensare a Moro come a un teorico del razzismo. Ma su citazioni così, isolate dal contesto e dalla persona, si sono imbastiti processi sommari.
Aldo Moro e Giulio Andreotti
È imbarazzante leggere le pagine filofasciste della rivista Azione fucina, organo ufficiale degli universitari cattolici, allora diretta da Aldo Moro e Giulio Andreotti. Anche il suo biografo Massimo Mastrogregori in Moro (ed. Salerno, 2016) non può fare a meno di citare il titolo entusiasta dei due direttori, futuri leader della Dc, il 16 giugno 1940: “Ora decisiva, una sola parola: Vincere!”. E il biografo ricorda la posizione nazional-fascista della rivista cattolica diretta da Moro e Andreotti: il culto dei caduti fascisti, l’elogio della Spagna franchista, l’antiamericanismo, la missione italiana di civiltà (pp.50-1).
Dopo la caduta del fascismo e prima della nascita della repubblica, Moro guardò con simpatia all’Uomo qualunque di Giannini e al governo Badoglio e non disdegnò di dichiararsi a certe condizioni “uomo di destra”. Ad esempio, l’8 maggio del ’45 Moro scrive su La Rassegna, un foglio barese moderato che fu accusato dalla sinistra di neofascismo: “Le destre come consapevolezza storica, come visione realistica della vita umana, come misura vigile contro le tentazioni dell’entusiasmo, non possono e non debbono essere sconfitte”. Moro si riferiva a una destra come temperamento e mentalità; rispetto ad esse “noi siamo di destra limitatamente a questa serena realistica considerazione”.
In precedenza, Moro aveva notato la differenza di stile tra destra e sinistra: “le prime pronte a riconoscere valore all’ideologia avversaria, finché non diventi esclusiva, le seconde portate invece a negarle del tutto, se pure si adattano per ragioni tattiche, al compromesso della convivenza”. Una critica radicale all’intolleranza della sinistra.
“Timidezza cauta”
Moro notava che “la ragione della debolezza delle destre” fosse in quella “timidezza cauta” che non incendiava le masse “galvanizzate dalla irruenza veemente della intransigenza di sinistra”. Poi subentrerà il ruolo analgesico della Dc morotea rispetto ai conflitti. Ma la sua era una posizione di destra sociale, si potrebbe dire, perché Moro impiantava i valori di libertà e di realismo nella dottrina sociale cristiana.
Del resto, la sua stessa iscrizione alla Dc nel ’46 fu incoraggiata dall’arcivescovo di Bari Marcello Mimmi, un conservatore che lo aveva sostenuto come segretario nazionale dei laureati cattolici e lo aveva appoggiato per la segreteria nazionale della Domus Mariae, per contribuire a frenare le aperture a sinistra nella Dc di un altro ex-fascista dossettiano, Amintore Fanfani. Nei primi anni Sessanta, fu Pinuccio Tatarella a pubblicare a Bari un opuscolo su Moro uno e due in cui ricordava i trascorsi morotei.
Moro condivise la battaglia de La Rassegna contro il radicalismo del Cln, le epurazioni e le vendette dei partigiani. Scriveva nel 12 marzo del ’45 che “la milizia irregolare” dei partigiani richiamava “spiacevoli ricordi della rivoluzione permanente e del suo presidio armato…noi guardiamo con tanto timore l’esercito dei partigiani… ed a certe spavalderie da bravi”. E temeva soprattutto che le armate partigiane, godendo di perfetta autonomia, “si facciano persino giustizia da sé. E di che giustizia si tratti si può bene immaginare”.
Tutto messo a tacere
Per un intellettuale dal linguaggio paludato come Moro, era già un significativo esporsi. La tesi di fondo de La Rassegna era che “Finché vi sarà antifascismo e quanto più incrudelirà l’antifascismo, tanto più si ingigantirà il pericolo fascista, specie se si considera che l’antifascista in Italia dopo il 25 luglio 1943 sfondava porte aperte”. Ma tutto questo, naturalmente, viene messo a tacere.
MV, La Verità
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