Perché la giornata della Memoria è vissuta da molti italiani con disagio? Non mi riferisco ai pochi negazionisti e a chi farnetica contro gli ebrei. Mi riferisco ai tanti italiani che condividono l’orrore per la shoah e la persecuzione razziale, rispettano il dolore e la memoria. Ma quando vedono ogni altra memoria cancellata e relativizzata, ogni altro orrore rimosso e archiviato, ogni altro evento storico dimenticato; quando la memoria diventa sinonimo di quell’evento e nient’altro nella storia dell’umanità; quando perfino la ricerca storica è condizionata da leggi speciali che ne obbligano il giudizio e ne vietano la revisione; quando Auschwitz prende il posto della Croce, del Venerdì Santo. E quando vedono che qualcuno vi specula – lo storico ebreo Norman G. Finkelstein denunciò “l’industria dell’olocausto” e il suo sfruttamento – insorge l’insofferenza. Non per la Shoah, ma per la sua rappresentazione. Un fastidio represso perché se solo ne accenna si passa per nazista e razzista.
E col tempo la Memoria aumenta anziché attenuarsi: oggi è più ossessiva di 30-50 anni fa. Ma l’alibi è sempre lo stesso: attenti, sta per risorgere… C’è sempre un piccolo episodio, una piccola idiozia che fa gridare all’orrore risorto.
Non c’è telegiornale, non c’è palinsesto, non c’è film storico, non c’è gita d’istruzione che non contempli quell’evento. Sparisce la storia del comunismo, sparisce la storia dell’uomo nei secoli e ogni altra cosa, anche bella e positiva; resta come una specie di religione dell’umanità, il culto di quella sola memoria.
Solo per limitarci a quegli anni, l’umanità visse tre immani tragedie, ciascuna a suo modo unica: il lager, il gulag e la bomba atomica. Tre mali radicali che massacrarono innocenti. I gulag furono i primi, durarono decenni, sterminarono di più e non in tempo di guerra. Ma il Male Assoluto, per l’Ufficio della Memoria, è solo il primo.
Da anni critico il monopolio della memoria e l’abuso, politico, ideologico, mediatico e perfino mercantile della Shoah. A viso aperto. Ma nella giornata della memoria (di solito estesa a una mesata se non a un’annata della memoria) devo confessarvi che ho letto Se questo è un uomo e La Tregua di Primo Levi, e vorrei parlarvene senza ipocrisia. Mi hanno toccato profondamente. Non le ho rilette, come di solito si dice, ma le ho lette per la prima volta, superando il rigetto che provo quando una lettura è obbligata, da ossequiare a priori. Ma rilette al di fuori di quel cono mediatico ed enfatico acceso giorno e notte, come il fuoco di Vesta, rilette da uomo a uomo, con mente e cuore aperti, le ho trovate di struggente umanità.
Le ho lette, certo, con la mia, personale sensibilità e sono stato toccato in particolare da due cose che di solito passano in secondo piano: il suo pensiero del ritorno e la sua nostalgia della casa, dell’Italia, degli italiani.
“Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno” scrive Levi mentre lo deportavano e passando il Brennero figurava “l’inumana gioia” del passaggio inverso, in libertà, verso l’Italia, coi “primi nomi italiani”. Un’altra volta nel lager, sentendo passare un treno e sibilare la locomotiva, Levi sogna il treno del ritorno a casa: “sentirei l’arie tiepida e odore di fieno, e potrei uscire fuori, nel sole: allora mi coricherei a terra, a baciare la terra, col viso nell’erba. E passerebbe una donna e mi chiederebbe: “Chi sei? In italiano e io le racconterei, in italiano, e lei capirebbe e mi darebbe da mangiare e da dormire”. “In italiano”, ripete, con una densità evocativa del tutto priva di retorica.
Poi ne La tregua, Levi racconta la nostalgia come “una sofferenza fragile e gentile, essenzialmente diversa, più infima, più umana delle altre pene che avevamo sostenuto fino a quel tempo: percosse, freddo, fame, terrore, destituzione, malattia. E’ un dolore limpido e pulito, ma urgente; pervade tutti i minuti della giornata, non concede altri pensieri, e spinge alle evasioni”. E la voglia di raccontare, il veleno di Auschwitz dentro le vene, quei versi memorabili: “Sognavamo nelle notti feroci/ Sogni densi e violenti/ Sognati con anima e corpo/Tornare; mangiare; raccontare”. In quei tre verbi è riassunta non solo la speranza di chi è internato nei campi (non solo nazisti) ma anche di ogni agognato ritorno: il cammino a ritroso è spinto dalla fame originaria del cibo di casa, le pietanze della madre nell’infanzia, il pane condiviso coi famigliari e i commensali (compagni da cum-panis, non compagni politici). E raccontare, perché solo dicendo, condividendo, è possibile sgravarsi da quell’immane peso. Levi parla di ritorno, non di esodo, parla di casa e d’Italia non di terra promessa.
Quest’anno è il centenario della nascita di Levi; era stato balilla e avanguardista, proveniva da una famiglia blandamente fascista, suo padre indossava la camicia nera; poi arriva la feroce demenza delle leggi razziali e lui diventa antifascista. Il suo capolavoro, Se questo è un uomo, dapprima rifiutato da Einaudi, pubblicato da de Silva, è il canto dolente di ogni uomo di ogni tempo, terra e razza. E racconta il male patito da ogni uomo. Se parla all’umanità intera non può che raccontare il male universale e non uno, esclusivo, unico, assoluto. Sconfiggi il razzismo se rispetti le differenze ma comprendi che gli ebrei sono come noi, né eletti né maledetti.
MV, La Verità 27 gennaio 2019