Il Chianti Classico è un vino complesso. No, niente stereotipi dettati dall’abuso di un termine dietro il quale per anni si è voluto infilare di tutto. Il Chianti Classico è un vino complesso perchè nasce da un territorio estremamente variegato, che esprime nel bicchiere una molteplicità di sfumature territoriali.
Non si può sintetizzare con caratteri comuni, il Chianti Classico: qui sta la sua complessità. Io a Rocca di Montegrossi l’ho capito, passeggiando tra le vigne erbate di Marco Ricasoli-Firidolfi. Si, Ricasoli come il Barone (di cui Marco è discendente, n.d.a.). Ma via dalla testa fantasmi a cavallo, castelli avvolti nella bruma e scenari steampunk. A Rocca di Montegrossi si va sul concreto. E parecchio.
Bettino Ricasoli era uno che “sapeva tenere la barra dritta”. Intraprendente, spigoloso di carattere e di quella riservatezza che oggi manca a gran parte dell’attuale classe politica, Ricasoli fu un innovatore nell’arte della viticoltura. A differenza della nobiltà del tempo, elesse il Chianti a sua stabile residenza e lavorando sull’allevamento della vite e sulla vinificazione, il ‘Barone di ferro’ trasformò un vino da pasto in una eccellenza, ambita e riconosciuta.
A lui si deve la ricetta originaria del Chianti nonché la creazione del primo antenato degli odierni consorzi, quella “Congregazione dei vini”, capace già nel 1800 d’imporre rigide norme sulla produzione e il commercio del vino. Un visionario insomma, che aveva intravisto un futuro di condivisione e d’eccellenza per il vino toscano.
Questioni di famiglia: la capacità d’intravedere il futuro unita allo spirito intraprendente ed all’attaccamento al territorio paiono costanti generazionali nella famiglia Ricasoli. E Marco Ricasoli-Firidolfi, in quanto a piglio visionario non è da meno del suo antenato.
A Rocca di Montegrossi inizia ad applicare la lotta integrata nel 1994 per passare al biologico nel 2006. La sua conoscenza del microclima e la volontà di ottenere un risultato preciso lo portano pian piano a modificare il sistema di allevamento di gran parte dei suoi vigneti.
“Sono passato a Guyot perchè col Cordone dopo 10/12 anni il vigneto arriva a produrre molto poco. Un poco che non è un bene perchè le temperature mediamente più alte degli ultimi decenni hanno portato ad avere grappoli tendenzialmente avanti nella maturazione, che possono sciupare l’intera produzione. Il Guyot invece mantiene costante la produzione perchè ogni volta impone il rinnovamento del tralcio”.
Un territorio che parla a voce alta
In un mondo oramai globalizzato, dove sistemi d’allevamento, vitigni, metodi di vinificazione possono essere replicati ai 4 angoli del globo, l’unica cifra d’autenticità è il terroir.
Un biologicamente perfetto impasto di caratteristiche fisiche, climatiche, microclimatiche e geologiche che se carpite ed interpretate dal produttore, possono dar vita ad un risultato straordinario.
Possono, non devono, “perchè il terroir parla: ci sono zone che hanno una marcia in più rispetto ad altre“, mi insegna Marco. La considerazione vale ancor più per il Chianti, dove ettaro per ettaro cambia il mondo nel bicchiere.
Monti in Chianti – a 10km da Gaiole – esprime caratteristiche peculiari per la longevità del vino.
I vigneti di Rocca di Montegrossi si collocano in un altopiano tendenzialmente pianeggiante, senza colline attorno ad ostacolarne la ventilazione e con una elevata altitudine media. Questo fa si che la circolazione d’aria e l’escursione termica siano particolarmente costanti anche in estate, restituendo acini asciutti e non intaccati da muffe, che consentono di non affrettarne i tempi di raccolta. Il risultato è un Sangiovese pieno, possente e presente. Senza quell’astringenza eccessiva dei Sangiovesi che non hanno completato la maturazione.
La magia dell’Alberese
V’è poi quell’insieme di caratteristiche geologiche che rendono il risultato unico: l’Alberese, un calcare marnoso dall’elevato contenuto di carbonato di calcio domina i vigneti, vestendo il vino con rubini più intensi, regalandogli accenti minerali ed intriganti sfumature speziate. Un marchio territoriale che è la vera e propria cifra d’autenticità dell’azienda, un fil rouge che percorre sottile tutte le annate e si sublima nel Rosato di Rocca di Montegrossi.
Sangiovese quindi ma anche Canaiolo e Colorino. Malvasia Bianca per il Vin Santo poi Merlot e Cabernet che occupano i terreni meno vocati al Sangiovese. Più recentemente il Pugnitello: pochi grappoli, acini molto piccoli ed un profilo capace di esaltare colore, struttura e profumo del Sangiovese.
Proprio il Pugnitello, vitigno a lungo ignorato, dal 2006 è entrato a far parte della cuvée del Chianti Classico Gran Selezione “San Marcellino“, uno dei gioielli dell’azienda dall’eleganza avvolgente e dalla longevità impressionante: il “San Marcellino” viene prodotto soltanto nelle migliori annate da un vigneto che vanta cloni di Sangiovese ultracinquantenari e che giunge a piena espressività dopo almeno 10 anni di bottiglia. Una pennellata d’autore per agli abbinamenti gastronomici più variegati. E pensare che in bocca sembra ancora un ragazzino…
Inflessibili puristi ed irresistibili sperimentatori
Purista quando si parla di Chianti Classico ed innovatore per quanto riguarda la restante produzione. Marco Ricasoli-Firidolfi ha dato corpo ad un sogno produttivo recuperando i grappoli in eccedenza dal vigneto San Marcellino per restituire l’anima più profonda del suo territorio nel Rosato Rocca di Montegrossi, un vino che esprime appieno quelle fascinose sfumature minerali tipiche del territorio e quel profilo di piacevole acidità che s’inscrive nel DNA del Sangiovese toscano.
Esperimento riuscito e consolidato negli anni anche sul colore e sui profumi, che sembrano collegare idealmente Toscana e Provenza in un tourbillon di analogie e differenze affascinanti per gli appassionati di rosati.
Concludo la mia visita con la ciliegina sulla torta. Quello che ti fa capire che il genio è davvero “fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione“.
Il Vin Santo di Rocca di Montegrossi, ottenuto con sola Malvasia Bianca del Chianti subisce un appassimento cui dovete assistere almeno una volta nella vita. Marco Ricasoli-Firidolfi ha infatti escogitato un sistema unico, fatto di reti mobili affisse su rotaie agganciate al soffitto. Qui i grappoli vengono appesi uno ad uno, certi di beneficiare al massimo del ricircolo dell’aria nel locale. In questo modo l’uva può essere attaccata dalle muffe nobili senza che gli acini stiano l’uno a contatto dell’altro e manualmente procedere all’eliminazione di quelli danneggiati.
Si procede poi alla torchiatura ed al passaggio in piccoli caratelli di moro (gelso), ciliegio e rovere, dove fermenta e matura al buio ed al silenzio per 6-7 anni. Persistente, setoso, dalle piacevolissime sfumature balsamiche e dalle note caramellate. Miscela affascinante di frutta secca, fichi, caffè e mandorle tostate, il Vin Santo di Rocca di Montegrossi si consuma in abbinamento a formaggi erborinati, foie gras o la più classica pasticceria della tradizione toscana.
Attenzione però è vietato l’inzuppo! D’altronde è scritto anche in etichetta!
Leggi anche: https://www.adhocnews.it/inzuppare-il-cantuccio-non-sha-da-fare-il-divieto-compare-in-etichetta-ed-era-lora/
www.facebook.com/adhocnewsitalia
Tweet di @adhoc_news