Salario minimo – Negli ultimi mesi il tasso di inflazione in Europa ha raggiunto il valore medio annuo del 7,5%. Secondo i dati Eurostat, l’incremento medio dei salari è stato del +3%: ne consegue la riduzione del potere d’acquisto di 4,5 punti. Questi valori sono variabili da Stato a Stato. E’ interessante notare le differenze, riguardo alle proposte che sono state messe in campo per affrontare questo spinoso tema economico.
In Francia nel 2021 il salario minimo è aumentato per ben tre volte (complessivamente del 5,9%) e i sindacati si sono posti l’obiettivo di arrivare a duemila euro al mese. In Spagna il salario minimo ha raggiunto i 1000 euro al mese per 14 mensilità. Il sindacato in Portogallo, ha chiesto di aumentare il salario da 705 euro a 800 euro al mese. In Germania, il sindacato IG Metall sta cercando di ottenere per gli 85mila lavoratori delle acciaierie un aumento salariale dell’8,2%. Gli impiegati del settore chimico-farmaceutico hanno già ottenuto un bonus una tantum di 1400 euro. In Danimarca il sindacato FNV sta cercando di far aumentare il salario minimo da 10 a 14 euro l’ora. In Lussemburgo e a Cipro i salari sono agganciati all’inflazione. Mentre in Italia la scala mobile è stata abolita trent’anni fa (1992, Governo Amato).
Cala il potere d’acquisto dei lavoratori
Secondo Luca Visentini, segretario generale della Confederazione Europea dei Sindacati (CES), “i maggiori aumenti salariali si sono verificati in Germania, Austria e Francia. Ma sono in corso grandi campagne anche in Belgio, Spagna e Portogallo”. In Italia, invece, tutto tace. Il tema salariale non è oggetto di discussione e gli impegni presi da partiti e sindacati sono rimasti mere intenzioni, limitate a dichiarazioni programmatiche e a proclami. Questa indolenza nel frattempo si traduce in un preoccupante calo del potere d’acquisto dei lavoratori.
Va detto che poche settimane fa il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha preso atto che il calo dei salari reali non è un fattore positivo. Causa la congiuntura economica già stressata dalle crisi indotte dalle emergenze ha proposto di legare gli incentivi e gli aiuti monetari alle imprese nei settori più in difficoltà a una corrispondente ripresa salariale. In sostanza, la proposta prevedeva che parte dei ristori fossero devoluti ai lavoratori. Un gioco a somma positiva per le imprese, che avrebbero potuto beneficiare sia di parte dei sussidi. Ma anche di un possibile aumento di ricavi grazie all’aumento del potere di spesa di chi lavora – quindi della domanda. Ma il diniego di Confindustria è stato netto. Talmente netto che la proposta è finita subito nel dimenticatoio.
Serve un salario minimo
In altri paesi europei la situazione è differente e i sindacati, in modo più o meno risoluto, sono stati in grado di far sentire la loro voce. La ragione ce la spiega la stessa CES. Per bocca del suo segretario afferma: “In tutti i Paesi dove c’è un salario minimo legale si sta agendo su due fronti, proteggendo le categorie più povere con aumenti decisi per legge e nello stesso tempo facendo crescere la scala salariale al momento del rinnovo dei contratti”. Detto in altre parole l’esistenza di un salario minimo fissa un plafond verso il basso sotto il quale non si può scendere. Per questo la contrattazione collettiva è in grado di ottenere significativi aumenti stipendiali.
In Italia non esiste un salario minimo. CISL e UIL sono ferocemente contrarie e la posizione della CGIL, pur ammettendo delle aperture, non appare chiara e univoca. A parte i 5stelle e Sinistra Italiana, i partiti in Parlamento fanno finta di non vedere. E di fronte all’autoritarismo del governo Draghi, la capacità contrattuale dei 5S e di SI (che è all’opposizione) è risibile.
La scusa della contrattazione collettiva
La contrarietà all’introduzione di un salario minimo legale viene argomentata sostenendo che tale misura potrebbe mettere a repentaglio la contrattazione collettiva. Ma l’Istat ci ricorda che più della metà delle lavoratrici e dei lavoratori in Italia (il 54,5%, pari a 6,8 milioni di persone) è in attesa del rinnovo del CCNL, soprattutto nel settore terziario.
Nelle scorse settimane è stato rinnovato il contratto per il trasporto pubblicolocale, che era scaduto 4 anni e mezzo fa (54 mesi!): 90 euro lordi di aumento medio mensile e 500 euro una tantum per la “vacanza contrattuale”. Se l’aumento di 90 euro fosse stato applicato alla scadenza del contratto, l’incremento medio per il singolo lavoratore sarebbe stato pari a 4.860 euro, quasi dieci volte l’una tantum di compensazione per la “vacanza contrattuale”: senza mezzi termini, una vergogna. Stessa cosa era successa negli scorsi anni con il contratto delle cooperative sociali, rinnovato dopo sette anni con un aumento, anche in questo caso, di circa 90 euro e con l’elargizione una tantum di 300 euro, contro una perdita di migliaia di euro per ogni educatrice/-tore maturata durante gli anni in cui il contratto era scaduto.
In italia non si sciopera sul merito dei rinnovi
Si tratta di una situazione paradigmatica. L’Italia è l’unico paese europeo in cui si sciopera (non sempre con successo) non sul merito del rinnovo, bensì per chiedere che cominci la trattativa: questa prassi è così consolidata che è diventata l’asse portante della strategia padronale. Le associazioni datoriali (Confindustria in testa) procrastinano l’avvio delle trattative per un rinnovo contrattuale, sapendo che ciò consente loro un cospicuo risparmio e una riduzione del costo del lavoro, poiché la compensazione per la “vacanza contrattuale” sarà sempre inferiore a ciò che avrebbero dovuto pagare se il nuovo contratto fosse diventato operativo il giorno dopo la scadenza di quello precedente, come ben evidenziano i casi sopraccitati.
Così si spiega la crisi salariale italiana, la più profonda del continente europeo. La causa certamente risiede nella protervia padronale, ma anche nella miopia dei sindacati, che non riescono a vedere come l’introduzione di un salario minimo possa essere un utile strumento per invertire questa drammatica tendenza.
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