La polizia della Repubblica Sociale Italiana riuscì ad arrestare solo cinque gerarchi che erano talmente tanto convinti di non aver fatto nulla di male, da non pensare assolutamente di allontanarsi dall’Italia o rendersi irreperibili.
Il sesto ad essere catturato fu Galeazzo Ciano, il pesce più grosso del processo. Non si sentiva sicuramente al sicuro differentemente dagli altri gerarchi. Però era stato tratto in inganno dai tedeschi, con i quali cercava di barattare la propria salvezza in cambio dei suoi famosi diari, e venne consegnato agli italiani.
Inizialmente aveva sperato anche nell’intercessione di Mussolini. Ma poi una tale speranza era andata scemando. Anche alla luce della debolezza politica del suocero circondato elementi estremisti e limitato dai tedeschi.
Gli altri gerarchi
Luciano Gottardi aveva continuato sempre a definirsi fascista, vantandosi di aver continuato a salutare romanamente anche quando era stato apertamente proibito. Venne grottescamente individuato perché egli stesso scrisse una lettera ad Alessandro Pavolini in qualità di nuovo segretario del Partito Fascista Repubblicano per chiedere la tessera. Invece della tessera arrivano le manette.
Tullio Cianetti ribadì con vigore la propria innocenza, affermando di aver ritirato per iscritto il proprio voto favorevole all’ordine del giorno Grandi la mattina successiva. Era certo di aver chiarito tutto con Mussolini e di non avere nulla da temere. Sperava che si sarebbe chiarito tutto in poco tempo.
Tragica invece la situazione di Carlo Pareschi, e anch’egli convinto di non aver fatto nulla di male. Non si era occupato di nulla che andasse oltre la sua competenza di ministro dell’Agricoltura e delle foreste. Credeva fermamente che durante quella seduta sarebbe stato interrogato solo ed esclusivamente in merito all’approvvigionamento alimentare in Italia. Era un tecnico che non si occupava di politica, pienamente in buona fede e convinto di non essere andato in alcun modo contro Mussolini. Non aveva capito l’importanza dell’ordine del giorno Grandi.
Il maresciallo d’Italia
Poi c’era il maresciallo d’Italia Emilio De Bono, quadrumviro della marcia su Roma, un famoso eroe di guerra. Ormai la storiografia ha dimostrato che da tempo era segretamente ostile a Mussolini. Ma in quel frangente era pienamente convinto che il Duce non avrebbe mai permesso di sacrificarlo. Impressione inizialmente rafforzata dal fatto che in considerazione dell’età e dello stato di servizio non viene portato in carcere. Mussolini stesso dette ordine che venisse sorvegliato in casa propria rimanendo agli arresti domiciliari.
E poi Giovanni Marinelli segretario amministrativo del partito ed amico storico di Benito Mussolini. Paradossalmente oltre ad essere una persona anziana è anche provatamente sordo e non aveca capito molto del dibattito durante la seduta del 25 luglio.
Differentemente da tutti gli altri, che rimangono tranquilli, intuisce il pericolo imminente. Era fermamente convinto che Mussolini non avrebbe permesso di processarlo, però comprende che Mussolini può essere in questa fase ostaggio dei gerarchi più intransigenti e degli alleati tedeschi. Ha una vera e propria crisi isterica mentre lo portano via davanti alla sua famiglia. Capisce benissimo che probabilmente il processo può finire molto male, in un momento in cui le considerazioni giuridiche vengono coordinate a quelle politiche ed altri odi dei camerati di ieri.
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