Si chiama serie A e dovrebbe essere il campionato di calcio italiano. Utilizzare il condizionale, però, è d’obbligo, perché più della metà dei giocatori che scendono in campo ogni settimana è straniera. Su 499 calciatori tesserati per i venti club di A, infatti, ben 311 non sono italiani (quindi il 62,3%). Tanti,
La squadra più esterofila di tutti è la Lazio, con addirittura ventitré stranieri in rosa su ventisette, seguita dall’Udinese, che ne conta ventuno su ventisei, e la Roma, con diciannove su ventinove calciatori totali. Ma le altre grandi non sono da meno: Atalanta, Inter, Milan e Napoli hanno in squadra diciassette stranieri, mentre la Juventus solamente uno in meno.
Il tutto per la disperazione dei poveri telecronisti, costretti a fare i conti con nomi impronunciabili come quello del centrocampista belga del Milan Alexis Saelemaekers, del portiere polacco della Juventus Wojciech Szczesny o dell’attaccante olandese del Bologna Sydney Van Hooijdonk, giusto per citarne qualcuno.
L’ATALANTA DEL 1963
È il risultato di un mondo sempre più volto alla globalizzazione, ma a quale prezzo? Il calcio italiano ha inevitabilmente perso la sua identità. Dopotutto, lo straniero proviene da un’altra cultura e spesso ignora anche l’esistenza del club finché non firma il contratto con esso. Il giocatore allevato nel settore giovanile, invece, viene indottrinato fin da piccolo e cresce ben consapevole della filosofia della propria squadra.
È certo, quindi, che quando scenderà in campo lo farà rispecchiando in toto la maglia che indossa. Mentre chi è cresciuto in un’altra realtà, non potrà provare le stesse sensazioni ed avrà un attaccamento diverso alla squadra ed alla propria città. L’impresa dell’Atalanta nella Coppa Italia del ’63, con il trofeo conquistato grazie al cuore e alla grinta di una squadra con ben 7 bergamaschi in campo, appare impossibile nel calcio d’oggi, almeno in Italia.
Guardando alla Spagna c’è il caso dell’Athletic Bilbao, che per rispettare la tradizione del club tessera solamente giocatori baschi o di origine basca (sono ammessi anche ragazzi formati nelle giovanili di un club basco). E lo fa con grandi risultati, considerando che è l’unico club insieme a Barcellona e Real Madrid a non essere mai retrocesso in seconda divisione.
I tifosi, poi, sono felicissimi della filosofia adottata dal club, tanto da rifiutare la proposta di aprire la squadra anche a calciatori stranieri (nel 2010 venne lanciato un sondaggio in cui il 93% dei tifosi votarono per mantenere la squadra chiusa a giocatori baschi).
Il tutto, permette che si conservino le rivalità tra le varie piazze, che evidentemente non possono essere percepite in egual misura da chi non è cresciuto in quell’ambiente. Saremo illusi e nostalgici a pensarla così, ma ci manca il buon vecchio calcio di una volta.
Federico Strumolo per “Libero quotidiano”
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