Sono state sottoposte alla sterilizzazione senza consenso.
Per molte forse non in maniera definitiva, dal momento che sono state impiantate loro delle spirali contraccettive. In buona sostanza sì, se si considera che il tempo non è arrestabile e anche le donne hanno una data di scadenza.
Si tratta di indecenti pratiche naziste dal sentore eugenetico, ovvio. E invece no, questa volta loro non c’entrano: sul palcoscenico dell’assurdo sale la democraticissima Danimarca, cui fanno indegna compagnia diversi altri stati al mondo come la Cina – in questo caso, però, non stupiscono affatto.
Lo scandalo è scoppiato alcune settimane fa, quando sessantasette donne di etnia Inuit, native della Groenlandia, hanno sporto denuncia contro il governo danese.
Portavoce del movimento è Naja Lyberth, psicologa e attivista per i diritti delle donne, che si ritrovò con una spirale impiantata nell’utero a soli 13 anni e la cui testimonianza fa davvero rabbia. La ragione di questa pratica allucinante? Gli Inuit stavano diventando troppi.
Un po’ come quando si introduce un predatore per ridurre la popolazione dei cinghiali, allo stesso modo
Copenhagen – a cui non va il merito dell’originalità – approdò all’infelice pratica di ridurre le nascite impiantando spirali del tipo Lippes Loop.
La popolazione Inuit della Groenlandia, immensa isola dell’Atlantico nord occidentale, prima dallo stato
giuridico di colonia e poi connessa al regno di Danimarca come nazione costituente autonoma nel 1953, aveva
raggiunto numeri mai visti prima di allora.
La cosa che sorprende è come tale incremento demografico fosse stato in realtà favorito dal miglioramento del sistema sanitario. Esso, infatti, aveva abbattuto notevolmente la mortalità infantile.
In pratica coltiviamo un campo di grano, facciamolo crescere rigoglioso e poi diamogli fuoco
La semi-sterilizzazione fu messa in atto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta – ma forse anche un po’ di più, se si considera che la Groenlandia ha un sistema sanitario autonomo solo dal 1991. Interessò, come si è detto, quasi
cinquemila donne in età fertile. Lo scopo?
Ridurre la pressione economica sul welfare
Donne, ma anche bambine. Naja Lyberth, infatti, aveva solo 13 anni quando un medico si presentò a scuola e
le impiantò una spirale nell’utero. Una violenza sessuale bella e buona, su cui si innestò anche un forte disagio
psicologico di vergogna e paura, soprattutto nei confronti dei genitori. Poi c’è un’altra storia, quella di
Bebiane (nome di fantasia), che a 21 anni andò dal ginecologo per mettere una spirale e scoprì con orrore di
averne già una. Sì, ma quando le era stata impiantata?
A 16 anni ebbe un aborto e con ogni probabilità l’equipe medica che l’aveva operata ne approfittò. Nei successivi quattro anni, fu afflitta da violenti dolori addominali, così intensi – dice – da impedirle di salire le scale.
Molte di loro, che hanno scoperto in tempo di avere una spirale a loro insaputa, sono riuscite infine ad avere
dei figli, come il caso di Bebiane, ma moltissime altre non hanno avuto questa possibilità. L’impianto, rimasto anche per decenni nell’utero, spesso ha causato danni irreparabili, costringendo le vittime a operazioni di isterectomia. Questo il caso di Katrine Jakobsen, che ha ricevuto la sua spirale a 12 anni e ha perso l’utero a 30.
Senza contare l’avvilimento di quante hanno provato per anni a rimanere incinte, probabilmente colpevolizzandosi per ogni fallimento.
Nei primi mesi del 2023, però, qualcosa si è mosso. I governi danese e groenlandese hanno avviato un’indagine
congiunta, con lo scopo stabilire una volta per tutte gli estremi del reato. Le 67 vittime che si sono fatte avanti in questa denuncia hanno richiesto un risarcimento di appena 300.000 corone danesi (circa € 40.000), francamente ridicolo di fronte ad azioni di tale barbarie. Tanto per cambiare a discapito delle donne.
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