Dirsi conservatore è il più grande tabù vigente. Eppure la miglior letteratura nostrana nel nostro tempo fu espressa da scrittori conservatori: Tomasi di Lampedusa, Dino Buzzati, Giovannino Guareschi, Giuseppe Berto, Eugenio Corti, Guido Morselli, Carlo Alianello, Carlo Sgorlon. Autori di fortuna diseguale, alcuni di grande popolarità, altri dimenticati, ma furono conservatori e impolitici.
Molti pappagalli ripetono una frase celebre e fraintesa del capolavoro di Tomasi: “bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima” – per ridurre il suo Gattopardo a un manifesto dell’italico trasformismo, confondendo i camaleonti e le bisce con la nobile stirpe dei gattopardi. Sbagliano animale. Il Gattopardo è un fiero e aristocratico felino e la sua trasfigurazione araldica lo conferma. È rampante, non mutante. Lo conferma il Principe di Salina, sia nella versione del romanzo che in quella del film di Visconti. Il Gattopardo è il contrario di un opportunista, un voltabandiera.
È un disincantato signore che con elegante malinconia meridionale abdica alla vita, si ritira dal mondo ed entra con regale lievità nel regno del passato. Don Fabrizio cede il passo con distaccata galanteria e un velo di disgusto ai parvenu, agli arrampicatori sociali e ai nuovi dominatori. Dopo di noi gattopardi, dice, verranno gli sciacalletti, le iene. Il Gattopardo non è un manuale di sopravvivenza per galleggiare, ma un trattato di stile sulla nobiltà del ritirarsi. E Il Gattopardo affonda col proprio mondo accennando una smorfia di sorriso, è un vinto alla sua cerimonia d’addio, non un furbetto trasformista che vuol farla franca.
Il Gattopardo descrive l’esatto contrario del tipico italiota che sopravvive ai regimi e alle mode. È curioso pensare che il miglior romanzo dedicato al Risorgimento non ne celebri il trionfo ma sia visto con l’occhio dei vinti; ma le sconfitte ispirano più alta letteratura delle vittorie. Il Gattopardo è l’opera di un conservatore anche se fu pubblicato da Feltrinelli. Ciò induce a due considerazioni, sulla povertà organizzativa del mondo conservatore in Italia; e sulla penuria di grandi nella letteratura egemone progressista. Disponeva di grandi poteri culturali ma era carente di vette letterarie.
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Dino Buzzati ebbe l’indole di un conservatore all’antica, preciso e leale, metodico ma sognatore, apolitico, pessimista e anche reazionario, come egli stesso ammise, ma in forma privata, precisò, “attaccato alle vecchie cose, alla tradizione, piuttosto che alle cose di domani”. Rispettoso del “principio d’autorità fin da bambino”, “doverista”, come egli scrive, legato all’etica militare e al senso del dovere. Non è una banale etichetta ideologica, ma non si capisce il Deserto dei Tartari, il tenente Drogo, la Fortezza Bastiani, il suo mitico mondo di neve e sogni, natura e magia, alberi e fate, senza capire quell’indole. Cronista nei fatti del giorno, coltivò l’immaginazione nelle pause della realtà. La sua fu letteratura onirica, ma fu un Kafka non succube dei suoi incubi.
Difese la letteratura fantastica da quella impegnata: “il conformismo, l’opportunismo e l’arrivismo filo-marxista dei miei colleghi mi fa venire il vomito, e come primo impulso mi fa diventare assertore della monarchia assoluta”. E la sua critica alla contestazione, “una cretineria bell’e buona”, la rabbia per “quella congrega d’imbecilli” che sobilla i giovani. E il suo racconto profetico ambientato nel 2008 di una società senile dove sono i vecchi a bastonare gli studenti, 40anni dopo il ’68 (magari erano gli stessi contestatori d’ allora). A lui non interessava piacere alle mode e agli intellettuali, ma “sognava un solo traguardo: “commuovere la gente che mi legge”. L’umiltà di un vero scrittore.
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Benché in disparte, Carlo Sgorlon vinse due volte il Campiello con record di voti e una volta lo Strega, oltre a uno sciame di altri premi, metà dei quali gli furono revocati o sospesi perché c’era sempre un imbecille, intellettuale o assessore, che gli contestava il premio perché è sconveniente premiare un conservatore confesso. Sgorlon era un solitario della narrativa e lo ripeteva nella sua autobiografia, in cui si definiva “scrittore naturale” e “anarchico tranquillo”. E aggiungeva a suo danno: “Sono uno dei pochissimi che si definisce conservatore”. Sgorlon è un mite interprete della civiltà contadina friulana, animato dal realismo metafisico; ama la realtà, l’essere e insieme coltiva i sentieri del sacro, del mito, della favola. Ama la natura che è cosa più seria e più vitale dell’ecologismo.
Si riteneva addirittura spiritualista. Ha scritto delle foibe quando nessuno o quasi ne parlava, ha scritto dei cosacchi in Friuli e dell’oppressione sovietica, ha ricordato un eroe della civiltà cristiana europea contro l’Islam come Marco d’Aviano, ha raccontato storie del suo Friuli tradizionale. Ebbe un forte senso morale e religioso. Apparve come l’antiPasolini, friulano pure lui, e si stroncarono a vicenda; ma il meglio di Pasolini è quando somiglia a Sgorlon, e nutre nostalgia del mondo contadino, religioso e arcaico premoderno. Sgorlon era fuori dai giri mondani e letterari e scrisse pagine sul conformismo della trasgressione contro il ’68. Attaccò la giustizia sommaria dopo il fascismo, “che colpì i meno furbi, i più coerenti e i più fedeli a se stessi”.
Criticò lo storicismo e il progressismo, citando a suo conforto Eliade e Nietzsche. Il suo universo ondeggia tra il sacro e la natura, tenendosi lontano dalla storia e dall’ideologia. Sgorlon avversò l’egemonia culturale della sinistra sin dai tempi dell’università quando la vide all’opera alla Normale di Pisa. Non si impegnò politicamente, si tenne decorosamente in disparte. Gli fecero pesare il premio Flaiano vinto battendo Dacia Maraini. Sgorlon notò intorno a sé “un cordone sanitario, una bandiera gialla di pericolo di contagio”. Ma non ne fece una malattia. Si rifugiò nella solitudine e nella natura, nella scrittura e nel sacro e forse non a caso si spense nel giorno di Natale. Gli dei torneranno, dice il titolo di una sua opera. Dei conservatori impolitici è la gloria nei cieli della scrittura.
MV, La Verità
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