Leadership – La Provvidenza non è solita caricare sugli uomini pesi più grandi di quelli che possono portare. Questo, da sempre, rispondono i confessori ben formati a penitenti smarriti, indecisi tra la denuncia delle proprie colpe presunte e l’imprecazione sguaiata contro la divinità. Perché la vita degli uomini, come quella dei popoli, è un affare serio, e ben di rado assomiglia a una passeggiata primaverile tra le vie pittoresche di Notting Hill. Ma vi è chi crede che in tutto questo vi sia un equilibrio nascosto, un sistema metrico decimale invisibile, che smista e distribuisce sapientemente croci, oneri e pesi, e talvolta persino gioie e piaceri. Una meccanica invisibile, che agisce su emozioni e passioni così come la meccanica classica agisce sui solidi e ne regola il movimento. Se questo è vero, e non vedrei perché dubitarne, si torna al punto di partenza: ai popoli, come agli uomini, non si può chiedere di dare quello che umanamente non possono dare né caricarli di responsabilità che rifuggono semplicemente perché non le comprendono. Il popolo tedesco è grande in tutto quello che fa, ma è arreso dinanzi alla politica. Senza che questo suoni come una critica, giacché c’è un’orgogliosa grandezza romantica nella irrimediabile impoliticità del deutscher Volk, il popolo della Kultur contro la Zivilisation. Il popolo dell’indefinito musicale e della filosofia, il cui vate nazionale amava starsene confinato in un principato da operetta, è un popolo che ama più di altri la quiete e il raccoglimento della dimensione privata, essendo animato da un disperato bisogno di tranquillità, di ordine, di prevedibilità. Non capirne le ragioni sarebbe imperdonabile: il trauma nazionale mai superato (a proposito di oneri e croci) la cui origine risale alle devastazioni della guerra dei Trent’anni: un Paese senza confini, conficcato al centro d’Europa, messo a ferro e fuoco per decenni da orde di invasati, ridotto a un permanente campo di battaglia con esiti antropologici, prima ancora che economici e sociali devastanti; e secoli dopo, Weimar e la sua tragica fine, nel gorgo mortifero di una crisi economica senza eguali, con le famose cariole piene di marchi, meno pregiati di fazzoletti usati. Da qui la Wille zur Ordnung, il bisogno insopprimibile del calcolo, di un progresso lento e ruminato. L’economia che diventa ragioneria, l’agenda politica che ha la stessa ambiziosa grandezza dell’ordine del giorno di un amministratore di condominio. La visione politica richiede coraggio, un coraggio che può riassumersi nella capacità/disponibilità a lasciarsi inquietare, ad accettare la possibilità del salto e della discontinuità. Doti che non tutti possono avere. Chiedere alla Germania di avere visione politica e di guidare da sola, politicamente, l’intero continente, equivale a pretendere che uno studioso obeso di storia militare, che non ha fatto il servizio di leva per via dei piedi piatti, comandi una carica di cavalleria: un onore non richiesto, un onere insopportabile, una croce portata senza amore, una Kreuz ohne Liebe, per citare il titolo di un’opera del grande Heinrich Böll. La gestione della crisi economica epocale esplosa nel 2007 ha svelato la congenita miopia politica di una UE a guida tedesca. Una crisi affrontata senza flessibilità, senza fantasia, senza visione politica, unita alla gestione feroce e disumana del problema greco, trattato a colpi di troika, minacce, e ricette del FMI, hanno consegnato definitivamente ai contemporanei l’immagine di una struttura di potere tentacolare, tecnocratica, elitaria e anti-umana. In breve, l’immagine di una prigione dei popoli. Nel Paese di Hölderlin ferve da anni un dibattito scientifico sullo stato di salute e sul futuro della UE; un dibattito che, com’è abitudine da quelle parti, raggiunge livelli di consapevolezza e di approfondimento di cui ben di rado si trova traccia negli organi di stampa italiani. Wolfgang Streeck, tra i più autorevoli sociologi tedeschi viventi, ha messo in luce con notevole lucidità il vizio di fondo che si è insinuato come un veleno nell’idea europeista originaria corrompendola irrimediabilmente, minando la costruzione europea con un’accelerazione crescente a partire dagli anni Novanta, con effetti perversi moltiplicatisi esponenzialmente a seguito della crisi economica del 2007. Il volto sfigurato e inguardabile dell’Europa attuale non è il risultato di un incidente di percorso, di un smarrimento temporaneo facilmente rimediabile che ha fatto perdere la bussola ai leader europei. È al contrario il frutto deliberato del pervertimento dell’idea originaria di Europa, un’idea umanista, solidale e comunitaria, deturpata e tradita a vantaggio di un’Europa di sole banche, economia e finanza. Amministrata da poteri fortissimi e autoreferenziali, per i quali la democrazia è al contempo un idolo vuoto da blandire formalmente negli organi di stampa “autorevoli”, e un fastidioso intralcio da scavalcare nelle sedi che contano, nelle quali del tutto anti-democraticamente si prendono le decisioni importanti, destinate a condizionare se non a sconvolgere la vita dei popoli. Da questo punto di vista, la UE attuale pare il laboratorio ideale in cui giunge a compimento il modello sociale hayekiano, il quale si fonda sulla dittatura di un’economia di mercato capitalistica al riparo da qualsiasi correttivo democratico. È ovvio che un modello “politico” siffatto apparirà legittimo e potrà funzionare, secondo quanto osserva Streeck, solo nella misura in cui coloro che una volta costituivano il popolo dello Stato finiscano per identificare la giustizia sociale con la giustizia del mercato, e per pensare se stessi come i membri di un unico popolo del mercato. Con la precisazione che tale soluzione è possibile solo a condizione di svuotare le singole istituzioni nazionali di ogni reale contenuto democratico, distruggendo politicamente e marginalizzando ideologicamente coloro che non si adeguano. L’introduzione dell’Euro, per come è avvenuta, e per come soprattutto è stata intesa, è un esempio perfetto di come una società transnazionale, estremamente eterogenea al suo interno, possa essere trasformata in una società di mercato regolata dalle idee propugnate dall’ideologia economica più ortodossa, con conseguenze devastanti. Come, ad esempio, obbligare quei governi e quegli Stati membri cui dovrebbero stare a cuore il lavoro, il benessere e la sicurezza sociale della popolazione, a utilizzare lo strumento neo-liberista della svalutazione interna, ovvero l’aumento della produttività e della competitività grazie alla creazione di mercati del lavoro più flessibili, salari più bassi, orari di lavoro più pesanti, più diffusa partecipazione al mercato del lavoro e completa mercificazione dello Stato sociale. Il risultato è un deserto della democrazia, dominato dallo spread e dallo 0, il risultato che è oggi sotto gli occhi attoniti o distratti di milioni di nostri contemporanei. Insomma, un disastro. Dunque, che fare? Tutti i leader militari che si rispettino, prima di decidere il da farsi, studiano, e se possibile, scelgono il campo di battaglia, Wellington insegna. Per non parlare del grande Publio Cornelio Scipione. Publio il terreno non se lo era scelto. Doveva conquistare Carthago Nova, apparentemente inespugnabile. Era solo con i suoi legionari cannenses, che aveva salvato dal confino, recuperato come uomini, e motivato come soldati. Publio è paziente e umile. Passeggia per le campagne, osserva il territorio, il mare, la laguna, la direzione dei venti e le maree. Parla con i contadini del posto. Rimugina in silenzio. Attende. Finché un bel giorno gli viene un’idea, che risulterà decisiva. Ma di questo parleremo nella prossima puntata.
Sovranismo e trasfigurazione della UE: appunti di viaggio
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by Redazione
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