Joseph P. Kennedy, capostipite della dinastia, era un convinto assertore del non intervento americano, tanto da venir rimosso da Roosevelt quale ambasciatore a Londra.
Charles Lindbergh dichiarò pubblicamente di ammirare Adolf Hitler. Henry Ford era stato autore di un’opera antisemita dall’eloquente titolo, l’ebreo internazionale, a seguito della quale il Führer lo aveva insignito dell’Ordine dell’Aquila tedesca.
William R. Hearst magnate di giornali americani era simpatizzante del non intervento. Insieme a moltissimi importanti industriali.
E poi c’era pur sempre la tendenza isolazionista degli americani che li porta come sentimento popolare a non volersi imbarcare nelle vicende straniere.
L’ammirazione per il fascismo
Anche per il fascismo c’erano state forti manifestazioni di simpatia. Hemingway come cronista aveva descritto l’Italia di Mussolini idilliacamente. Italo Balbo era l’eroe della traversata Atlantica e Roosevelt aveva ammirato le politiche sociali mussoliniane, tanto da aver tratto alcuni spunti del sogno New Deal.
Mussolini aveva mandato da Roosevelt Guido Jung, ministro delle finanze per un amichevole interfaccia all’inizio della sua presidenza. Anche se dopo le leggi razziali Guido Jung, di origine ebraica, era stato allontanato dalla vita pubblica. Mussolini non considerava quanto quelle leggi danneggiassero la sua credibilità all’estero.
Lo stesso Vittorio Mussolini ammise che il presidente americano, che lo aveva invitato per un tè quando si era recato a Hollywood, in quell’occasione gli aveva chiesto un incontro riservato con il padre. Mussolini non volle incontrare presidente americano. Probabilmente per non indispettire i tedeschi e convinto che gli americani non potessero avere un ruolo rilevante in Europa.
Mai si rivelò miopia più grande.
La scommessa di una guerra vittoriosa poggiava sul non intervento americano.
Quale migliore occasione se non parlarne direttamente con Roosevelt?
Iniziavano ad incrinarsi definitivamente i rapporti tra il capo del fascismo con Balbo, che probabilmente vedeva nel Duce un uomo di troppe certezze e troppi pochi dubbi.
Certezze che poggiavano su interpretazioni personali di una realtà dalla quale Mussolini si era distaccato.
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