Strage del Cermis. La doppia ingiustizia
Il 3 febbraio scorso è stato commemorato il 26° anniversario della strage del Cermis. E, come ogni anno, abbiamo rievocato lo scotto di una giustizia mai fatta e di una serie di beffe che non possono che aumentarne l’amarezza.
Intorno alle 15:00 di quel terribile giorno, una delle due cabine che collegano Cavalese alle stazioni sciistiche del Cermis stava scendendo verso valle
D’un tratto, il cavo che la teneva sospesa si tranciò, la cabina precipitò per oltre 100 metri e si schiantò al suolo. Tutti i 19 turisti più il manovratore persero la vita, la vittima più giovane fu un ragazzino polacco di 14 anni.
Fin da subito, soprattutto secondo i testimoni, la situazione sembrò chiara: un velivolo militare forse aveva tranciato per sbaglio il cavo.
Il fulcro delle indagini si concentrò sulla base americana di Aviano, in Friuli
Gli inquirenti, a fronte di un’iniziale reticenza da parte del personale militare americano, riuscirono finalmente a trovare le prove: un Grumman EA 6B Prowler in fase di smantellamento, da cui era sparita la scatola nera e che mostrava sull’impennaggio di coda dei danni – cui seguì la conferma della presenza di frammenti del cavo d’acciaio.
Fu stimato che l’impatto era avvenuto a una velocità di circa 8oo km all’ora, mentre il velivolo si trovava a una quota di circa 113 metri, molto al di sotto di quella consentita dalle direttive emanate dall’aeronautica militare italiana di 650 metri.
Dapprima vi fu un tentativo di ridimensionare la questione
I militari affermarono che le mappe in loro possesso non erano aggiornate – dichiarazione smentita dalla presenza delle ricevute di consegna delle nuove mappe. Poi affermarono che l’altimetro del velivolo aveva avuto un malfunzionamento.
Tutte scuse per nascondere quanto in realtà fu poi confermato: l’errore fu umano, l’aereo volava a bassa quota per permettere al navigatore, Joseph Schwetzer, di girare un filmato souvenir delle Dolomiti per il capitano Richard Ashby, che sarebbe ritornato in America.
In ottemperanza alla Convenzione sullo statuto delle forze del 1951 (SOFA), i due militari furono processati negli Stati Uniti.
Il verdetto, che sembrava scontato, fu un colpo di scena: vennero dichiarati non colpevoli, alla faccia di 20 famiglie e svariate nazioni. L’assoluzione, tra l’altro, ebbe un peso ancora più terribile, se si pensa che negli Stati Uniti non si può processare due volte un imputato per lo stesso reato.
A quel punto la crisi diplomatica tra Italia e Usa fu servita
Il primo scossone c’era stato all’indomani dell’incidente, quando Prodi minacciò un costernatissimo Clinton di vietare l’utilizzo delle basi americane sul suolo italiano se non si fosse fatta luce.
Pochi giorni dopo la sentenza, il 10 marzo del ‘99 il parlamento italiano discusse a tal proposito un’informativa urgente e si parlò della posizione dell’Italia all’interno della NATO.
Il suo rilievo come potenza era mutato e aumentato dal 1951
Così come si stava plasmando una nuova NATO dopo la dissoluzione del blocco sovietico, così anche lo stivale meritava maggiore considerazione. Insomma, sostennero i parlamentari, l’Italia non era più la piccola nazione del dopoguerra, era il momento di fare la voce grossa – uno dei temi caldi fu proprio il SOFA, per cui si esacerbò anche la discussione sulla presunta tendenza americana di spadroneggiare senza conseguenze.
Forse alla luce di tali pressioni, la vicenda venne ripresa in esame dalla corte marziale americana e si procedette a condannare Ashby e Schwetzer per intralcio alla giustizia, per aver distrutto il video incriminante. I due furono congedati con disonore e Ashby condannato a sei mesi di carcere – di cui scontati solo quattro per buona condotta.
L’Italia pretese che il governo americano si facesse anche carico del risarcimento per le famiglie delle vittime. Il senato propose al Congresso la cifra di 40 milioni di dollari ma fu respinta. A quel punto, fu l’Italia a stanziare 4 miliardi che gli Usa, per via degli accordi NATO, dovettero comunque rimborsare allo stato italiano fino al 75%.
E poi, l’Italia ottenne anche l’estradizione di Silvia Baraldini
Chi è? Un’attivista italiana nota in America fin dagli anni ’70 tra i gruppi rivoluzionari che sostenevano i diritti civili. Era stata condannata nell’83 a 43 anni di carcere per associazione sovversiva, evasione, tentata rapina e cospirazione. L’Italia, come impose il governo americano, spese una fortuna per rimpatriarla e la accolse con tutti i riguardi.
Sarebbe azzardato ravvedere un torbido accomodamento politico, per lasciare decadere definitivamente la questione basi americane?
Sembra di no
La posizione ormai consolidata dell’Italia a livello internazionale, più il suo “vantaggio” nei confronti degli Stati Uniti avrebbe dovuto spingerla a pretendere qualcosa di più invece di un accomodamento del tutto inutile e che mandò in fumo ogni possibile pretesa futura. E la dimostrazione potrebbe trovarsi in una sentenza del 3 agosto del 2000, a seguito del processo che contrappose la Federazione italiana lavoratori trasporto della provincia di Trento e gli Stati Uniti.
La federazione chiese di accertare tutti i danni e i pericoli che i voli a bassa quota degli aerei militari recavano agli abitanti, di cessare tali attività e di ridimensionare il numero di voli per limitare al minimo i rischi. Gli Stati Uniti si opposero a tali accuse ma più clamoroso fu l’atteggiamento dell’Italia.
La presidenza del Consiglio e il ministero della Difesa diedero man forte alla posizione dell’America e depositarono presso la cancelleria del tribunale di Trento un atto, nel quale dichiararono le domande dell’accusa “inammissibili e improponibili per motivi di giurisdizione e per carenza di interesse, e sia perché infondate” affossando, di fatto, ogni possibile soluzione al problema.
Evidentemente, 20 morti non costituirono un precedente abbastanza fondato.
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