Suicida contro il suicidio della civiltà: Yukio Mishima

Civiltà

Civiltà suicida – A chi crede alle coincidenze, nei giorni seguenti all’elezione di papa Bergoglio si toglieva la vita nella cattedrale di Notre-Dame lo scrittore Dominique Venner. A chi crede alle coincidenze, quella cattedrale profanata dal suicidio “pagano” di Venner, prese fuoco lo scorso anno, in quel terribile incendio che privò Parigi del suo cuore sacro.

Non sbrigate il suicidio in Notre Dame il 21 maggio del 2013, come il gesto di un invasato estremista. Dominique Venner aveva forte e tragico il senso dell’onore, della civiltà e della decadenza. Il suo libro forse più bello, Il bianco sole dei vinti, insegnò a molti giovani, anche in Italia, la nobiltà della sconfitta. Il Suicidio nella Cattedrale (degno aggiornamento del celebre dramma poetico Assassinio nella Cattedrale di T.S.Eliot) è un atto che anche a distanza di anni, desta dissenso e insieme ammirazione.

Il Giappone del Bushido, la civiltà del Sol Levante

Non si può condividere un suicidio. Tantomeno la profanazione di una Chiesa con un gesto che ha un senso rituale nel Giappone del Bushido ma non nell’Europa cristiana. E non si può condividere il suicidio per amor di tradizione e dolor di decadenza (e non banalmente contro le nozze gay, come si scrisse). Meglio dar la vita per una causa che togliersela; meglio compiere gesti per la famiglia e non contro la sua negazione. Ma non posso nascondere l’ammirazione. Tra mille suicidi per ragioni personali c’è qualcuno che si suicida per una ragione superiore, condivisibile o meno; si uccide per la civiltà e non per gelosia, debiti o malattia.

Certo, dietro c’è l’estetica della decadenza e forse un modo nobile per sottrarsi alla vecchiaia. C’è pure l’aspirazione alla luce nera della gloria maledetta, forse; una forma estrema ed eroica di narcisismo. Ma è comunque un gesto di grandezza, sulla scia francese di Henry de Montherlant più che di Drieu La Rochelle, di cui pure Venner era innamorato. O per restare nell’ambito dei suicidi per denunciare la crisi di civiltà, l’esempio di Yukio Mishima giusto 50 anni fa, il 25 novembre del 1970.

Seppuku, il suicidio rituale

Che però nel seppuku, il suicidio rituale, compiva un atto antico della tradizione nipponica. In Giappone quel suicidio è sacro, da noi è dissacratore, anche quando rivela la nostalgia del sacro. Il paradosso è stato immolarsi per una civiltà, profanandola nel suo luogo più sacro. Montherlant (omosessuale come Mishima) si uccise da pagano tra le rovine pagane. Comunque, onore a Venner, uomo in piedi tra gelatine umane.

Resta invece per noi come un macigno sullo stomaco e un tormento nella mente un tema che ci portiamo dentro da quando abbiamo cominciato ad avere la percezione della nostra epoca: l’idea del suicidio della civiltà, la morte degli dei, la passione per i vinti dei secoli passati e anche del secolo scorso. Tutti siamo passati da quel crinale, tra decadenza e nostalgia, e abbiamo in modi diversi raccolto la testimonianza di un tramonto, salvo una vaga aspirazione a propiziare l’aurora, la rinascita e il ritorno degli dei.

Ribellione eroica

Ma la nostra scelta, chiamatela come volete e connotatela come credete – conservatrice o nazional-rivoluzionaria, antimoderna o oltremoderna, aristocratica o populista, cattolica o pagana, reazionaria o nostalgica, tradizionalista o fascista – si riconosce in quella visione decadente della nazione, dell’Europa, dell’Occidente e della cristianità. È la cultura eroica della disperazione, l’epica, l’etica e l’estetica della rivolta contro il mondo moderno, la sua decadenza e le sue rovine. Ribellione eroica e nostalgica ma solitamente destinata alla sconfitta, alla testimonianza solitaria; eroismo che si fa martirio.

Questa visione della vita e del mondo infonde uno sguardo poetico, può dar vita a opere letterarie di intensa bellezza e congedi esistenziali maestosi. Ma non produce cambiamenti, non ha sbocchi politici e pratici, non cambia l’assetto del mondo; si inscrive piuttosto dentro il pessimismo eroico dell’età oscura, il kali-yuga o comunque la fine della nostra civiltà. Dunque inutile ribellarsi, è scritto nel destino, nei cicli epocali, non si può cambiare il corso storico e metafisico degli eventi; la rivolta personale serve solo a finire in bellezza o a testimoniare di sottrarsi, di non avere mai accettato alcuna complicità col declino.

Le percezioni negative del nostro presente

Tutto questo si carica di ulteriore significato anzi di pathos, difronte alla pandemia che ha sconvolto e travolto il mondo, portando a un collasso globale dell’economia e della società con esiti ancora impensati. Ora, sono comprensibili gli umori cupi e le percezioni negative del nostro presente. Però è necessario uscire da questa visione fatalisticamente decadente e regressiva dell’umanità che è speculare ma non superiore all’ideologia progressista che ha caratterizzato la fase espansiva della modernità. Non viviamo nel peggiore dei mondi possibili, non siamo al capolinea del mondo e dell’umanità, il mondo non finirà con noi come non cominciò con noi l’età dell’oro.

Riconoscere questa visione più articolata della vita e della storia, dei suoi moti ondulatori e sussultori, progressivi e regressivi significa avere una percezione più veritiera o perlomeno più realistica; e significa dare prospettiva al nostro agire, dare avvenire alle nostre aspettative.

Non vivere in attesa del Collasso finale

È importante non vivere in attesa del Collasso finale, ma in un mondo aperto, denso di incognite, pericoli ma anche imprevisti non necessariamente negativi. Il che significa che nel mondo si gioca ancora una partita tra Distruzione e Ricostruzione, e non bisogna darla vinta a tavolino alla prima.

Allora torniamo a Dominique Venner e a Yukio Mishima: il loro esempio oscuro e luminoso è un po’ il sole nero che ci accompagna come l’emisfero d’ombra della nostra concezione. Merita ammirazione ma non condivisione, desta rispetto ma non può destare emulazione. Che la loro memoria sia di monito ma non d’esempio.

MV, Il Borghese

 

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