Suicidio assistito: il dibattito continua

Suicidio assistito: il dibattito continua

Il tema è delicato. Riguarda soprattutto l’etica della vita in relazione con la morte. La domanda fondamentale da porsi è fin dove la vita può essere dichiarata tale e quando invece inizia l’epilogo, nonostante il soggetto sia ancora fisicamente in vita.

Perché qui sta il nocciolo del problema

Comprendere se anche nel perdurare della vita, intesa scientificamente come battito cardiaco e respirazione, vi sia in realtà la fine di ciò che rende l’essenza della vita. Quella che io chiamo “l’espressione di vita”.

Il dibattito è diventato rovente in queste ultime settimane.

Anna, 55 anni, affetta da sclerosi multipla in fase avanzata, è stata la prima cittadina italiana che ha usufruito del suicidio assistito tramite l’assistenza completa del Servizio Sanitario Nazionale.

Il nome è di fantasia, scelto direttamente da lei nella sua ultima lettera lasciata ai familiari

Anna per privacy ha voluto nascondere le sue vere generalità, soprattutto per tutelare i familiari. Nel suo ultimo messaggio, ha sottolineato che amava la vita, amava i suoi cari, amava la sua casa e le sue cose, ma le sofferenze fisiche erano oramai enormi e non le permettevano di sopportare oltre.

Assistita da associazioni esterne, Anna ha dovuto per un anno attendere la sentenza del Tribunale di Trieste.

Un’attesa determinata e convinta, che l’ha vista presente di persona, nonostante le gravi condizioni di salute, davanti al Giudice alla prima udienza presso il Tribunale civile di Trieste.

Nel verdetto il Tribunale di Trieste ha fatto espressa menzione della sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale.

Non esistevano, e non esistono tuttora, norme legislative sulla materia

L’argomento del suicidio assistito è troppo spinoso da trattare in sede politica. Il Parlamento, pur avendo preso in carico la necessità di un organico impianto legislativo sulla materia, rinviava e rinvia ancora oggi la questione di mese in mese senza occuparsene. E’ stato approvato un testo alla Camera nel 2022, dopo 4 anni in Commissioni Affari, ma – senza un motivo ufficiale – non ha fatto in tempo ad arrivare al Senato. E così ad oggi è tutto ancora in alto mare.

In mancanza quindi di una struttura normativa di riferimento, è stata la sentenza della Corte Costituzionale a guidare il Tribunale di Trieste. La sentenza nel 2019 dell’organo di garanzia costituzionale è stata dichiarata cauta e dirompente. Dirompente in quanto modificava la relazione fino a quel momento immodificabile del suicidio assistito. Cauta poichè non è stato integralmente eliminato l’impianto dell’art.580 del Codice penale.

Non era stata escluso infatti un comma dell’art.580 che prevedeva di riallacciarsi alla legge 219/2017, in materia “di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.

Non entrando in complessi meandri giuridici, la Corte Costituzionale ha espresso il giudizio che si può procedere al suicidio assistito solo se il paziente sia stato dichiarato totalmente e incondizionatamente capace di intendere di volere e se fosse stato più e più volte informato sul gesto e sulle conseguenze a cui andava incontro.

Oltre a rientrare nell’ambito previsto dalla sentenza 242, il Tribunale di Trieste ha dovuto attentamente valutare che non vi siano state “spinte” esterne alla richiesta di suicidio assistito e se ci fossero realmente, e senza incertezza alcuna, gravi e incurabili problemi di salute. Anna aveva tutti questi requisiti. Lucida fino agli ultimi istanti, prigioniera di un corpo che non era più il suo, il 28 novembre scorso, si è autosomministrata il farmaco letale che il Servizio Sanitario le aveva fornito.

E l’opinione pubblica si è spaccata in due

C’è chi ha gridato a gran voce alla sconfitta di tutta la società italiana. Le malattie, per coloro vicino al comitato pro-life, si possono curare “con medicine palliative che alleviano il dolore”. Fino ad oggi questa è stata l’unica strada possible per molti dei malati terminali presso i vari hospice d’Italia. Giorni e giorni costretti a letto, per la maggior parte in stato semincosciente, in attesa dell’atto finale. Ma questa di fatto può considerarsi “essere in vita”? Per chi davvero non ha speranze di guarigione e ha sofferenze indicibili, è giusto continuare a vivere e perpetuare le proprie sofferenze?

Mi pongo queste domanda da cittadina di religione cattolica, ma comunque laica, quale sono. E’ pur vero che se la vita è vita in ogni momento lo è anche nella malattia, ma esiste però anche l’umana pietà. Che è un concetto molto laico ma con implicazioni fortemente religiose. Se si parte dal presupposto che custodire la vita è un concetto laico, dobbiamo seriamente porsi la domanda “fin dove si può chiamare vita”. E chiedersi quando inizia invece la morte, non fisica, ma di non-vita della persona.

E’ questa la riflessione da cui partire

Dal concetto di vita e non-vita. Comprendere che potrebbe esserci anche un percorso di non-vita pre-morte anche durante la vita fisica ci offre una visione complessiva che ci conduce a ,comprendere quale sia la strada per procedere al suicidio assistito. E’ l'”espressione di vita”che ci deve guidare nell’analisi del problema, ovvero verificare fino a dove quel senso di oppressione del dolore dovuta a malattia irreversibile consenta o non consenta di continuare a vivere. Se partiamo da questa visione si possono comprendere le motivazioni che hanno portato alla decisione di Anna.

Comprenderle, non accettarle

L’accettazione non è possibile per un cattolico, ma l’umana – pietosa – comprensione si. Che la terra le sia lieve.

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