“Teste di Cazzi”, allocuzione di solito rivolta a destinatario singolo, é una maiolica di Francesco Urbini.

In anticipo su Arcimboldo, Francesco Urbini, realìzzò questo composito “tutto che diventa uno” nel 1536, dipingendo un volto con la giustapposizione di un considerevole numero di peni, accolti su un piatto fondo di maiolica di Casteldurante.

A sinistra, Leonardo

Si ritiene che questi giochi di composizione possano essere fatti risalire all’epoca di Leonardo, soprattutto come elementi giocosi.

Fu però Arcimboldo a nobilitare i ritratti compositi, assegnando ad essi un valore semantico non legato a un oggetto unico reiterato, come avviene in Urbini, ma ispirandosi all’idea dell’En to pan, l’uno in tutto e il tutto in uno, meditazione con toni spettacolari attorno al rapporto convergente della moltitudine, in direzione dell’Uno, con un discorso che, al di  là degli effetti notevoli, composti di frutta, pesci ecc, nascondeva meditazioni di tipo neoplatonico, ermetico e pitagorico.

E si potrebbe, in effetti dubitare, che il piatto di Urbini sia successiva alle “invenzioni” di Arcimboldo, ma la data sul retro inchioderebbe l’anno di produzione al 1536, quando il futuro pittore milanese aveva soltanto dieci anni.

E se Urbini avesse utilizzato un’idea o  addirittura un disegno di Leonardo? Gli indizi sono notevoli. Sappiamo che la maiolica dipinta, in quell’epoca, riscuoteva un grande successo e che i disegni di Raffaello vennero ampiamente utilizzati per “istoriare” la ceramica. Ciò che appare singolare, in quest’opera, è che la scritta sul cartiglio è vergata da destra a sinistra, come soleva Leonardo.

Essa non è speculare alle normali stesure leonardesche, non ha cioè le lettere ribaltate lungo l’asse, che caratterizzano i manoscritti del pittore-scienziato, eppure il gioco dell’inversione delle lettere ha qualche rinvio con il lavoro del grande maestro toscano.

Forse Urbini preferì rendere più semplicemente leggibili le parole, mantenendo il verso delle lettere, conservando speculari – se egli come pare, assunse come idea un disegno di Leonardo, solo la C e la Z di CAZI, e ciò per velare ulteriormente il sostantivo volgare.

Eppure quelle lettere speculari, legate alle ipotesi già formulate sull’ipotesi iconografica sulla possibile provenienza leonardesca del disegno, portano in direzione del Da Vinci o del suo ambito. Leonardo amava le barzellette o storielle sporche e ne scrisse diverse a margine dei suoi trattati; come lavorò molto su espressioni caricate o caricature.

Ma torniamo al piatto. La lettura da destra a sinistra avrebbe consentito l’accesso del significato dell’intera frase misteriosa a un pubblico avveduto, dopo aver provato a leggerla e rileggerla. Sul retro del piatto Urbini comunque aggiunse la chiave per giungere alla soluzione del giocoso enigma, scrivendo: ” El breve dentro voi legerite Vieni i giudei se intender el vorite (Leggerete il biglietto come fanno i Giudei, se volete capirne il significato).

Quindi il lettore tornava dalla parte del ritratto composto di peni e leggeva finalmente la frase: “Ogni homo me guarda come fosse una testa de cazi“.  Il termine “testa di cazzo”, che noi italiani utilizziamo attualmente come offesa, aveva un’analoga valenza semantica tra i nostri antenati e per quanto la frase sia involuta forse suonava. “Ognuno mi guarda come fosse una testa di cazzo” o “chi mi guarda è una testa di cazzo”.Qualcosa di simile alla frase infantile “Scemo chi legge”.

Provate ora a leggere. Da destra a sinistra. Ogni parola finisce con un trattino.

La “Testa de Cazi” è invece attribuita a Francesco Urbini, appartenente ai seguaci del veneto. Urbini fu attivo a Gubbio e Deruta. Tra il 1531 e il 1536 risulta operante a Gubbio.A lungo si è dibattuto sull’autore di quest’opera siglata, sul verso, Fr. In un primo momento si era ritenuto che il lavoro fosse ascrivibile a Francesco Xanto Avelli da Rovigo (Rovigo, 1486 circa – Urbino, 1542 circa), ceramista, colto umanista, poeta alla corte di Francesco Maria I della Rovere, duca di Urbino.
 
Francesco Xanto Avelli collaborò con Mastro Giorgio Andreoli da Gubbio a cui affidava il lustro delle proprie ceramiche, cioè le operazioni finali di trattamento dell’opera.
 
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