Il 19 gennaio di vent’anni fa si spense nella casa di famiglia in cui era nato 98 anni prima, a Saint-Marcel-d’Ardèche, il pensatore contadino e cristiano Gustave Thibon. Dovrebbe leggere i suoi scritti Papa Bergoglio, è una lettura semplice che apre il cuore; vedrebbe l’amore per la terra e la fraternità dal punto di vista verticale, cioè in profondità e in altezza. In profondità dove ci sono le radici, in altezza verso Dio. Per unire l’umanità, gli insegnerebbe Thibon, non serve gettare ponti ma innalzare scale; “chi non è salito fino a Dio non ha mai incontrato un fratello”.
Thibon è un autore sconosciuto ai più. Di lui uscirono mezzo secolo fa in Italia un paio di libri con l’editore Volpe, Ritorno al reale e Diagnosi, e qualche opera minore. Di recente D’Ettoris ha pubblicato Il tempo perduto, l’eternità ritrovata, (p.516, 25,90 euro), florilegio di scritti e aforismi a cura di Antonella Fasoli, prefazione di Benedetta Scotti. “Benedire tutto, non divinizzare nulla”, insegna Thibon; abbattuti gli dei sorgono i “mostri” e disfatti i miti si innalzano “i palloni gonfiati”.
Thibon abbandonò presto gli studi e dopo aver viaggiato, dimorando anche in Italia, si dedicò alla vita contadina ritirandosi nelle sue terre. Lì coltivò vitigni e pensieri. Lo scoprì Jacques Maritain, pubblicando un suo scritto nel 1931. Thibon era legato alla terra e al cielo, contadino e credente, nutrito di un amore metafisico per la realtà. Amava la tradizione e non la coniugava al passato né la relegava in un astratto Mondo Perfetto, ma la ritrovava nella vita che s’incarna di continuo, nelle radici che danno frutti e nel sole che si rinnova ogni mattino. “Non opporsi ai cambiamenti ma impregnarli d’eterno”.
Gabriel Marcel apprezzò la freschezza profonda della sua anima in comunione con la natura, la familiarità col silenzio e la sua vita regolata al ritmo del cosmo. Per Thibon un vero aristocratico si distingue ma non si separa dalla gente con sdegnoso snobismo; è il suo stile, la sua grazia, la sua essenza a distinguerlo. La nobiltà ha cadute, non bassezze. Il contadino ha radici, scrive Thibon, perciò non teme il vento e non diventa suo trastullo.
Nella sua casa di campagna si rifugiò Simone Weil in piena guerra per ritrovare il contatto con la terra nel lavoro agreste; con lui dialogò a lungo, insegnò a lui il greco e con lui lesse i classici; a lui affidò i suoi quaderni di cui fu il primo curatore. È splendido il ritratto di Simone che ci lascia Thibon nel libro scritto con Padre Perrin (Simone Weil come l’abbiamo conosciuta); ritrova in lei “l’egoismo trascendentale dell’eroe” e la sua insopportabile santità, perfino il suo antisemitismo, lei ebrea; la sua goffaggine, la sua inattitudine alla realtà e alla vita pratica e il suo desiderio di mortificarsi, di annientarsi.
Di quell’amicizia narrò un film di qualche anno fa, Stelle inquiete. Quando conobbe Simone Weil, Thibon provò all’inizio quasi repulsione. La stessa repulsione confessò pure lei verso di lui, “mi è letteralmente intollerabile”. Lei perduta nel suo etereo spiritualismo intellettuale, lui radicato nel suo terrestre spiritualismo realista; lei rivoluzionaria e anarchica, lui monarchico e vicino al regime di Vichy. Però l’amore della verità superò le antipatie superficiali e ideologiche.
Fu vinto, suo malgrado, “dalla purezza della sua anima, dalla qualità del suo spirito”, vide in lei “una tensione di fedeltà all’eterno” che rese la loro amicizia “profondamente fraterna”. “Aveva il privilegio di essere sempre dalla parte dei vinti”. Trentenne, era già incurvata dall’ascesi e dalla malattia, “solo i suoi occhi mirabili sopravvivevano in quel naufragio della bellezza”. E quel suo discutere all’infinito… Thibon colse la fragilità di Simone Weil in quella rigidità che la rendeva impacciata nella vita e astratta nel pensiero.
Mentre lei asciugava i piatti le disse che il suo punto debole era “una mancanza di unità tra terra e cielo”. Colse con perfetta semplicità la vena “gnostica” di Simone, quella spiritualità fuori dal mondo, dal corpo e dal tempo che rendeva rarefatti i pensieri e sovrumana la grazia. Solo la santità, disse, le apporterà la lievità suprema. Dal canto suo, Simone, integralista della purezza, giudicò aspramente alcuni scritti di lui; e criticò l’amore che il cristiano Thibon nutriva per Nietzsche.
Ma riconobbe lo splendore accogliente della sua anima, visse e vendemmiò con lui nella sua campagna – “con lei ho vangato la terra e spezzato il pane” disse Gustave. Lei rifiutava i conforti e l’abbondanza di cibo che lui le offriva e cercava la scomoda frugalità nella casetta diroccata sulle rive del Rodano. Probabilmente l’elogio del radicamento che lei scrisse proprio dopo il periodo trascorso nella campagna di Thibon, risentì di quella vita, quei dialoghi e quelle idee del filosofo contadino.
E così la difesa weiliana del passato, dell’onore, dell’ubbidienza, dell’ordine. Non a caso Simone affidò proprio a lui, nel loro ultimo incontro, i suoi Quaderni, perché ne facesse quel che voleva. Su una panchina di pietra lui e Simone leggevano insieme Platone, contemplando le stelle e fumando di continuo. Un filo di fumo legava Platone alle stelle Ci trafigge il suo dolore per la morte precoce di lei: “Sanno, i morti, ciò che uccidono in noi, lasciandoci? Per noi che l’abbiamo amata, una parte della nostra anima è divenuta una tomba: mille scambi, possibili solo con lei, sospinti fuori dall’esistenza”.
Per Thibon la ricetta per invecchiare bene è non smettere mai di nascere; anzi più che nascere, resuscitare. L’epoca in cui tutto è perduto, diceva, è anche l’epoca in cui tutto si può ritrovare. La salvezza verrà tramite la bellezza, la preghiera e l’amore. La parola chiave del suo pensare è “sempre, questa parola continuamente ripetuta dall’amore, continuamente smentita dalla vita”. Il suo corpo, come il suo pensiero, trovò in terra il cielo.
MV, La Verità 19
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