Il 21 dicembre del 1950 dopo una vita da poeta satirico e ventun giorni da senatore a vita, si spegneva “er core de Roma”, Trilussa. Aveva settantanove anni, anche se fino alla fine se ne toglieva sei, e il suo nome d’arte era l’anagramma del suo vero cognome, Carlo Alberto Salustri. Dopo aver preso in giro per una vita la politica e le istituzioni, in capitulo mortis, la politica e le istituzioni si presero gioco di lui. Il presidente della repubblica Luigi Einaudi lo nominò pochi giorni prima di morire senatore a vita. Trilussa si definì “senatore a morte”.
E fu uno scherzo da Trilussa quando alla gente che si congratulò per la nomina, giunse il biglietto di ringraziamento del poeta quando era già morto. Trilussa morì nello stesso giorno del suo romanesco predecessore, Gioacchino Belli (e di Boccaccio): un giorno assai importante nella tradizione romana, il solstizio d’inverno. Ma entrambi della romanità rappresentarono il lato buffo.
Ermenegildo de’ Cinque Quintili
Trilussa non cantò solo la Roma popolana, papalina e ministeriale, ma l’umanità e lo fece in chiave zoologica e favolistica, usando come attori e controfigure gli animali, come Esopo e Fedro. Di umili origini famigliari, visse all’ombra di un Palazzo patrizio a due passi da Montecitorio, adottato da un Marchese dal nome altisonante e buffo, Ermenegildo de’ Cinque Quintili, di cui fu figlioccio. Ebbe così il privilegio di conoscere e frequentare le due facce di Roma, la faccia popolana e il volto patrizio. Alto quasi due metri, Trilussa fu più colto di quanto desse a vedere.
Trilussa narrò i sentimenti, gli amori e le meschinità degli uomini, col distacco ironico del romano, naufrago di gloriosi imperi e pontificati. Ma fu efficace soprattutto nella satira politica, dove descrisse gli appetiti, le bassezze, le nullità presuntuose e i tradimenti con un occhio che taluni definiscono qualunquista ma nell’essenza fu un conservatore disincantato. A qualcuno fischieranno le orecchie, per esempio, leggendo il sonetto “L’elezzione der presidente” dove un somaro “pe’ l’ambizione de fasse elegge s’era messa addosso la pelle d’un leone”, oggi diremmo che aveva alterato il suo curriculum.
Conte
Una volta eletto, emise un raglio di esultanza, la gente si accorse allora che era un asino e lo accusò per l’imbroglio ma lui rispose: “Ho pijato possesso e nu’ la pianto nemmanco si morite d’accidente. Peggio pe’ voi che me ciavete messo! Silenzio e rispettate er Presidente!”. Quando il premier Conte si vantò in pieno covid di scrivere una pagina di storia, citammo un sonetto di Trilussa (che poi ha usato anche De Luca): “La lumachella della Vanagloria ch’era strisciata sopra un obelisco, guardò la bava e disse: già capisco che lascerò un’impronta ne la Storia”.
Un suo sonetto sul principe rivoluzionario è una satira ante litteram del radical chic, che fa il compagno in pubblico e l’aristocratico in privato, con la servitù a debita distanza che lo serve in vassoi d’argento. Fa pendant con la cicala rivoluzionaria ma scansafatiche che prende in giro la formica laboriosa e si vanta: “me sdraio in faccia ar sole e canto l’Inno de li Lavoratori!”
O il gatto socialista che una volta raggiunto il potere non divide il pasto col compagno micio proletario dicendogli: “Fo er socialista quanno sto a diggiuno, ma quanno magno so’ conservatore”. Poi deride l’uguaglianza, e la pretesa del gallo di mettersi alla pari all’aquila; e critica il progresso, dove l’ostrica dice al gambero “Chi nun te dice ch’er Progresso vero sia quella de stà fermi?” Il gambero s’incammina ma “appena ch’ebbe fatto quarche metro/ co’ tutta l’intenzione d’anna avanti,/ capì che camminava a parteddietro”. Una satira la dedica al “Circolo della libertà del Pensiero” dove “la puoi pensare liberamente ma a condizione che t’associ alle idee del Presidente”.
Julius Evola
Una volta, il giovane Trilussa indebitato ricorse a uno strozzino, Isacco di David Spizzichino (a Roma per antica consuetudine era consentito solo ai bottegai ebrei di prestare denaro); non avendo saldato puntualmente il debito, ricevette dall’usuraio una lettera intimidatoria. Trilussa pubblicò quella lettera minacciosa come prefazione al libro dalle cui vendite avrebbe saldato il debito…
Trilussa attraversò il fascismo, i caffè dell’epoca e le osterie con lo stesso spirito di osservazione e distacco, senza mai essere fascista né antifascista. Fu amico di Julius Evola, a cui chiese nel ’32 di scrivere una prefazione alla sua raccolta completa di poesie che stava pubblicando per Mondadori. Evola la scrisse ma l’editore non la pubblicò. Così Evola girò il suo scritto a Regime fascista, il giornale cremonese di Roberto Farinacci, col titolo “La satira di Trilussa è fascista?”.
A sorpresa l’altero pensatore esoterico dedicò una puntuale lettura dei sonetti di Trilussa, di cui elogiò la satira politica e il carattere, “una persona tutta d’un pezzo che sa quel che dice e nella sua vita e nella sua opera ha mantenuto sempre una linea limpida e costante”. Evola scrisse più volte di Trilussa, e negli anni Cinquanta su Il Nazionale pubblicò uno scritto, “Trilussa antifascista?” in cui denunciava l’arruolamento postumo e abusivo del poeta nell’antifascismo. I due scritti furono poi ripubblicati dalla Fondazione Evola in un quaderno postumo.
Poeta minimalista
Trilussa fu poeta minimalista: sulla sua lapide riportarono la sua poesia dedicata alla felicità: “C’è un’ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va. Tutto sommato la felicità è una piccola cosa”. Ma anche il lato piccolo ha le sue glorie. Splendidi i versi sulla tartaruga che “fece er passo più lungo de la gamba e cascò giù cò la casa vortata sottinsù. Un rospo je strillò: Scema che sei! Queste so scappatelle che costeno la pelle…lo so, rispose lei, ma prima de morì vedo le stelle”. Ridendo e bestiando, Trilussa svelava un cuore vero di poeta.
MV, La Verità
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