Un 10% in meno di democrazia risolverebbe molti dei nostri problemi

DEMOCRAZIA

Democrazia – Chi deve governare? Il coronavirus riporta al centro del dibattito la più antica delle questioni politiche. Innanzi a decisioni che condizioneranno il destino di un Paese, ci chiediamo chi debba prenderle. I politici? Gli esperti?

Garrett Jones, economista della George Mason University, ritiene che avere «un 10% in meno di democrazia» risolverebbe molti dei nostri problemi. Per Jones (10% Less Democracy: Why You Should Trust Elites a Little More and the Masses a Little Less, Stanford University Press, 2020) la democrazia è il peggiore dei sistemi possibili, ma dopo tutti gli altri. Ne riconosce i vantaggi, che sono essenzialmente due.

Due vantaggi della democrazia

Il primo è quello più ovvio: in democrazia le teste si contano e non si tagliano. La democrazia politica è associata a un elevato livello di tolleranza per le opinioni eterodosse e di rispetto per i diritti delle minoranze. Rispetto alle alternative storicamente note. Il secondo è che, come ha spiegato Amartya Sen, non c’è mai stata una carestia in un Paese democratico.

Se l’élite al potere è scelta attraverso una procedura competitiva, e sa che dovrà passare nuovamente per libere elezioni, eviterà scelte che mettano a repentaglio la cittadinanza. Qualcuno direbbe che ne abbiamo avuto prova proprio in questi giorni, nella velocità con cui i governi dei Paesi europei hanno rivisto norme, abitudini, stili di vita, pur di tutelare la salute dei propri elettori.

Ma la democrazia va per gradi. Per questo se ne può avere «un dieci per cento in meno». I suoi benefici sono particolarmente rilevanti quando, per così dire, «ci si arriva». Cioè quando si esce da un regime autocratico, per adottare invece elezioni a scrutinio segreto.

Questi vantaggi non crescono in proporzione alla «quota» di decisioni che vengono prese da un’assemblea eletta democraticamente.

Curva di Laffer della democrazia

Esiste una specie di curva di Laffer della democrazia. Al crescere delle aliquote fiscali, sosteneva l’economista reaganiano, il gettito aumenta fino a che non si raggiunge un punto oltre il quale comincia a scendere.

Un po’ perché le tasse sono talmente alte che si fa di tutto per eluderle, un po’ perché imposte così elevate scoraggiano la produzione.

La curva di Laffer non è una legge rigorosa, segnala una tendenza. Lo stesso fa quella che potremmo chiamare la legge di Jones. Democratizzare le decisioni ne migliora la qualità, cioè porta a identificare punto di vista del potere e punto di vista degli individui. Ma fino a un certo punto, oltre il quale, al contrario, democratizzare le decisioni può mettere a repentaglio, tanto per cominciare, il benessere di un Paese.

Perché? Il problema è l’orizzonte temporale del decisore politico. Un politico non è eletto a vita: al contrario, dovrà attrezzarsi per sopravvivere all’elezione successiva.

Questo è in certa misura un vantaggio, per tutti: davanti agli elettori si deve render conto di quanto fatto e, presumibilmente, evitare scelte eccessivamente sgradite. Ma la vicinanza della sfida elettorale porta spesso, invece, a scelte eccessivamente gradite: gradite a quei gruppi d’ interesse che controllano «pacchetti di voti» sufficienti a garantire la rielezione o sintonizzate con gli slogan, inevitabilmente semplificati, che dominano il discorso pubblico.

Il ceto politico è sordo

È l’attenzione al breve termine che spiega, secondo Jones, la ragione per cui il ceto politico è paradossalmente sordo alle argomentazioni degli economisti proprio su quelle questioni tra di loro meno controverse: che il libero scambio è vantaggioso per entrambe le parti coinvolte o, per stare a esempi prettamente italiani, che mandare in pensione prima gli anziani non creerà posti di lavoro per i giovani.

L’interesse elettorale di breve prevale sul bene comune, che è per definizione faccenda di lungo periodo. Che fare? Un’ opzione è allungare le legislature, «ritardando» per così dire la campagna elettorale. Diciamo, nel nostro caso, allineandone i tempi col settennato del Presidente della Repubblica.

Un’altra possibilità è ampliare lo spazio decisionale delle autorità indipendenti. E’ vero, ammette Jones, rischiano di essere «catturate» dai rispettivi regolati. Ma questi ultimi hanno un forte interesse a che il loro capitale sia remunerato. Ciò fa sì che il loro punto di vista collimi con quello di lungo periodo di un Paese: che consiste nell’avere buoni investimenti infrastrutturali, in settori come le telecomunicazioni o l’energia.

La storia ci insegna

Va paradossalmente rivalutato il punto di vista della burocrazia: i ministri passano ma i capi di gabinetto restano, e costoro avranno un approccio meno «predatorio» all’economia di un Paese, dal momento che essa deve garantire loro un reddito non solo per la durata di un governo ma per tutta la vita.

Ma l’idea più suggestiva di Jones è un’altra. Il debito pubblico rappresenta il grande freno alla decisione democratica. Esattamente come, nel privato, i creditori esigono che il loro debitore faccia profitto e tagli i rami secchi, così fanno con lo Stato.

La storia ci insegna che persino in caso di fallimento sovrano gli Stati tendono a risarcire una certa quota dei propri debiti, attorno al 30%: non farlo mette a rischio la loro credibilità e l’accesso ai mercati.

Perché, allora, non immaginare un’istituzione che riunisca i grandi creditori, alla quale demandare le decisioni di maggior peso, sul lungo periodo? La proposta suona male alle nostre orecchie democratiche. Ma suona meno peggio se ci ricordiamo che il debito sono imposte future. I nostri creditori di oggi sono i più credibili rappresentanti del gruppo d’interesse con meno voce: i cittadini di domani.

Alberto Mingardi per “la Stampa”

 

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